Il beat è un genere musicale sviluppatosi in Inghilterra all’inizio degli anni Sessanta, nato dal rock ‘n roll con influenze blues, skiffle, swing e doo-wop. In poco tempo si diffuse tra i giovani dell’epoca, prima in Europa e poi oltreoceano, in quella che fu definita British invasion, per cui alcuni artisti originari della Gran Bretagna, primi tra tutti i Beatles, divennero popolari negli Stati Uniti e in Canada.
 
In Italia il beat si affermò grazie alle cover incise da gruppi e solisti quali Dik Dik, Camaleonti, Profeti, Equipe 84, Caterina Caselli, The Rokes, Giganti, Corvi, Lucio Dalla, Pooh, Ribelli, Ragazzi del Sole, Delfini, Nomadi, Califfi, Patty Pravo. 
 
La musica beat si distingue per i suoni dominati da chitarre elettriche, armonie vocali e ritmi veloci, attenuati da linee melodiche orecchiabili. Le parti vocali sono ricche di cori che spesso ripetono frasi nonsense al servizio esclusivo del ritmo e della melodia, un po’ come nel doo-wop, lo stile derivato dal rhythm and blues e dal rock ‘n roll. 
Il doo-wop, affermatosi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, rinforza il canto solista con armonie vocali sincopate e cori spesso utilizzati come imitazione degli strumenti d’accompagnamento, più che come voci vere e proprie. 
 
La beat generation coinvolse i giovani dell’epoca sia nelle forme d’espressione artistica sia nello stile di vita. In Italia la più grande esperta di questo fenomeno è stata Fernanda Pivano, che scrisse numerosi testi di critica al riguardo, interessante la sua intervista televisiva allo scrittore Jack Kerouac.
 
Per L’Italo-Americano abbiamo chiesto a Bruno Morelli, fratello di Paolo Morelli leader del gruppo musicale Gli Alunni del Sole, di parlarci di quel periodo.
 
Il vostro primo brano, “L’aquilone”, rappresenta una linea di demarcazione tra il sound degli anni ’60 e quello dei ‘70, in quel momento tutto girava ancora intorno al beat.
L’epoca Beat ha attraversato gli anni Sessanta, periodo in cui gruppi come Beatles e Rolling Stones rappresentarono quello stile musicale distintosi per l’uso di chitarre elettriche, voce e cori cadenzati. L’entrata in campo dei “complessi” aveva già dato un segnale molto importante, rispetto al passato, impostando il suono sulla sezione ritmica e utilizzando, per le strutturazioni armoniche, strumenti quali pianoforte e chitarra. 
 
“L’aquilone” uscì nel momento in cui il beat tramontava, anche se l’uso delle chitarre acustiche, della dodici corde e dei cori poteva agganciarsi a quel fenomeno. Quel brano rappresentò il preludio dell’evoluzione che sarebbe venuta in seguito.
 
Dopo gli anni ‘60 si face strada una musica che esprimeva un tipo di cultura più importante, in grado di superare la struttura “strofa/ritornello”, dando spazio alle esigenze artistiche dei protagonisti di quell’epoca, tra cui mio fratello. 
 
La formazione classica consentiva di superare i suoni “duri” dovuti alla sezione ritmica dei gruppi, favorendo l’intervento orchestrale. Il risultato che ne conseguiva era quello di una maggiore imponenza musicale, oltre alla fusione tra diversi tipi di suoni. 
Se “L’aquilone” rappresenta un timido tentativo di evoluzione, con “Concerto” è evidente la volontà di fondere le due tipologie di suono, grazie alla base sinfonico-classica acquisita da Paolo durante gli studi.
 
Le stesse strutturazioni dei concept-album rivelavano l’intenzione del musicista di superare le standardizzazioni, cercando forme più complesse dal punto di vista armonico. In questo tipo di produzioni si era liberi di inserire momenti di respiro musicale, brevi suite di collegamento, finali non convenzionali, magari utilizzando anche la chitarra elettrica distorta.
 
Mio fratello colse l’esigenza di quel momento storico, uscendo dal canone armonico imposto dal rock, cosa che il beat aveva già compiuto in parte. In una situazione del genere, per fare un salto di qualità ulteriore, erano necessari testi più impegnativi, alcuni scelsero i temi politico-sociali altri si legarono all’attualità e ai fatti di cronaca. Paolo scelse di cantare l’amore attraverso le sue reminescenze di poeta e di appassionato, portando in musica le poesie scritte da ragazzo.
 

Le copertine degli album de I Camaleonti e dei Dik Dik e Bruno Morelli del gruppo Gli Alunni del Sole

La giornalista e scrittrice Eliana Vinciguerra ha vissuto attivamente l’epoca del beat, le abbiamo chiesto di parlarci del fermento di quegli anni. Sono passati cinquant’anni dalla Beat Generation, erano anni di speranza e cambiamento anche in Italia?
In Italia, come al solito, arriva tutto marginalmente e dopo il ‘68 non c’è stato più un grande interesse per il fenomeno contestatario giovanile. 
I libri dei beat furono accolti dalla critica con severità e asprezza, l’esplosione che accompagnò l’uscita di “Sulla strada” di Kerouac e dell’”Urlo” di Ginsberg, fu inghiottita dai critici come un fenomeno di curiosità e un fatto di costume. Si parlò di sgrammaticature e di prosa scomposta, di verbosità alla Thomas Wolfe e di non poesia. 
 
La Beat Generation è stata caratterizzata sempre più da un bisogno eccessivo di credere in qualcosa. Gli esponenti di questa generazione erano per lo più ragazzi maturati troppo in fretta da un’esistenza sempre più promiscua alla vita degli adulti, partecipi attraverso la televisione e i giornali illustrati degli stessi mezzi di informazione, superficiali e grossolani, di cui si servivano gli adulti medi. 
 
Ricordo che in quegli anni ci si abbigliava con abiti strani fuori moda, con i capelli lunghi gli uomini e con i jeans le donne (dicevano in segno di uguaglianza), sandali alla Ginsberg ai piedi e nastrino all’indiana sulla fronte, marce per la pace in Vietnam. Questo movimento Hippy, si sviluppò nel corso degli anni Sessanta in America, come corrente della cultura underground, in cui si espresse il dissenso di una vasta area del mondo giovanile, contro il consumismo, il conformismo, le discriminazioni razziali, le tendenze imperialistiche della politica statunitense, le insidie della “guerra fredda”. 
 
Gli Hippies furono sostenitori di un’utopia e riuscirono a dimostrare che anche le utopie possono contenere elementi vitali in grado di incidere nella realtà e di modificare situazioni cristallizzate. La loro era un’utopia pre-moderna, anti-industriale, che si sostanziava nel ritorno ad un’agricoltura senza macchine. 
Questo fu il limite del movimento, segnato dall’astrattezza propria di tanti movimenti di protesta giovanile. Rappresentò un fenomeno temporaneo di fluttuazione, il sintomo di una crisi e non di una proposta di soluzione.
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