Fra le acquisizioni storiografiche recenti in merito alla partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra mondiale, emerge quella di un Abruzzo che insieme al Molise fornisce alla Patria il più alto numero di giovani di leva (93%) e, conseguentemente, dal 23 maggio 1915 all’11 novembre 1918, in proporzione alla popolazione di una macroregione di oltre un milione di abitanti, fra i più elevati numeri di caduti e feriti. Questo dato di enorme mobilitazione da parte di un’area amministrativa della nazione ritenuta marginale (non partecipa alle celebrazioni del 50’Unitario a Torino), pur col dovuto rispetto ai molisani separatisi dal 1963, calata in dimensione abruzzese, o meglio aquilana, discendeva dal portato delle radiose giornate di maggio 1915 e relativo patrocinio dannunziano. Sul piano regionale, esse videro una prevalenza dei fautori dell’ingresso italiano in guerra sui neutralisti e pacifisti, sia socialisti che cattolici, privi però, quest’ultimi, di importanti esponenti di riferimento, periti a causa del sisma marsicano del gennaio 1915.
Aquila, capoluogo di una provincia che era seconda sul piano nazionale per estensione, e capitale degli Abruzzi per un glorioso passato storico, fu il fulcro di un interventismo a matrice studentesca ed intrecciato al militarismo, sui crinali del moderno agonismo. Agirono i fermenti giovanilistici critici verso quel notabilato liberale fedele alla Triplice Alleanza anche rappresentato dal paganichese Edoardo Scarfoglio, fondatore del napoletano Il Mattino nel 1892. C’è da notare che, quegli animi tardo adolescenziali avevano fatto le prove generali in senso ultranazionalistico dal volontarismo per la guerra in Libia del 1911-13, vieppiù dalla circostanza che il processo ai responsabili della famosa settimana rossa del giugno 1914 – a scarso un mese, si badi, dalla scintilla di Sarajevo – si tenesse alla Corte di Assise aquilana, ove comparve, poi assolto, un Pietro Nenni. Già la testata Il Tiratore Abruzzese del 15 ottobre 1914, ad imitazione dei poligoni di Messina, Parma, Torino, Milano, aprì i suoi corsi di istruzione balistica, presso l’ex orto di Santa Maria Maddalena, ai giovani del capoluogo non solo maschi, ad “evitare il rischio di trovarsi la Patria, senza difesa dinanzi alla mobilitazione generale”. Le adesioni del gentil sesso a questa schietta pratica maschile si ebbero sul finire del conflitto, e particolare prova di destrezza nel fucile di precisione la diede la giovanissima Augusta De Paolis, rampolla del tenente colonnello Salvatore, l’ispettore regio del poligono, intitolato al condottiero aquilano Antonuccio Camponeschi, vincitore nel 1424 su Braccio da Montone che aveva posto Aquila sotto assedio.
Sulla idea fallace di un breve tuonare del cannone in Europa, il centro storico del capoluogo, pavesato dai tricolori monarchici e cartelli per la quarta guerra di indipendenza, è luogo di adunate dei giovanissimi, pronti ad arruolarsi nonostante al di sotto dell’età di leva: è il caso di Nino Palmeri, Carlo Perrone, Carlo Passacantando, Pasquale De Rosa caduto nell’inverno 1916, in combattimento all’Ortigara. Alle cartoline precetto, rispondono, saldate dai vincoli parentali, le soggettività più in vista della città capoluogo e circondario: i fratelli Ugo e Gustavo Marinucci, Dante, Umberto, Vittorio Troiani, Serafino, Beniamino De Marchis costui dal 1917 al 1920, l’erede della presidenza di Vincenzo Gentile alla Deputazione provinciale, Giuseppe Chiarizia il padre del Carlo mobile politicamente, Carlo e Tito Perrone, Giuseppe e Vincenzo Di Nanna, Amilcare e Manlio Santilli; in chiave sparsa, in possesso di titoli di studio classici e tecnici i vari Giuseppe Federici, Adelchi Serena, Oreste Cimoroni, Michele Centofanti, Raffaele Biordi, Guido Petroni e Silvio Masciocchi, Giuseppe Urbani; infine, con lunga esperienza da militi, Francesco Giuliani, Francesco Rossi e Andrea Bafile.
Le correnti nazionalistiche sopravvenivano a quelle del pacifismo cattolico e socialista, rappresentate, quest’ultime, rispettivamente, dai giovani cronisti Giuseppe Berti De Marinis e Gaetano Sollecchia, dell’arcidiocesana La Torre; Francesco Donatelli e Giuseppe Scimia fondatori assieme ad Emidio Lopardi e Cesare Falli dell’organo dei lavoratori abruzzesi L’Avvenire, giornale che presto accantonava l’antibellicismo, in nome della esistenza di una nazione in armi, senza distinzioni ideologiche e sottoscrizioni per gli irredentisti alla Guglielmo Oberdan. La contestualizzazione bellica aveva mobilitato in chiave localistica gli animi delle giovani generazioni in traduzione agonistica; e suscitavano fascinazione le cosiddette macchine volanti inventate dopo tanti sforzi umani nel 1903 dai fratelli americani Wright. L’aviazione era stata annessa solo di recente al vocabolario sportivo, a dispetto della lettura dominante che la voleva ascrivere a finalità turistiche e progressivamente di guerra. Infatti, la flotta militare aerea dell’Italia era, fra le potenze dell’Intesa, al secondo posto, dietro l’Impero zarista, anche per la notevole domanda di aspiranti alle disfide nei cieli.
La passione per il volo fu coltivata dallo studente Emilio Pensuti-Speranza, aquilano di adozione perché nato in Perugia nel 1891 dall’ispettore delle Regie finanze Andrea e Marianna Speranza. All’età di due anni, per la scomparsa prematura del padre, si trasferì alla casa materna ad Aquila degli Abruzzi, ove fu sotto l’egida del patrigno Carlo Patrignani, fiduciario militare, pioniere dello sport, ma più noto perché, da allievo di Teofilo Patini, fu restauratore del foyer al Teatro comunale e della famosa bottega dei dolciari Nurzia. Emilio, così frequentò le scuole e stabilmente fino al 1907, dando ben presto prova di avere attitudine per le arti meccaniche, conducendo, come narrano le cronache giornalistiche, una delle pionieristiche automobili per le vie di una città con cui mantenne rapporti in prosieguo di sua vita. Doti non comuni di perizia doveva possedere questo ardimentoso “figlio aquilano”, che dopo la specializzazione all’officine Falck di Sesto San Giovanni ed Asteria di Torino, conseguì il brevetto da pilota, e nel 1912 si costruì un monoplano “Friuli”. Nel frattempo, finì alle dipendenze di una delle aziende emergenti nel gotha italico dell’aviazione, quale la Caproni, fondata nel 1909 da Giambattista e Federico, emuli dei Wright ed irredentisti trentini, a Vizzola sul Ticino, in un terreno concesso dal Corpo di Armata di Milano, che in sequenza fu la sede strategica di distaccamenti del Genio Militare, Battaglione Aviatori e Scuola Aviatori. Tale stazione, denominata di Malpensa nel 1910, dall’alto graduato Giovanni Cordero di Montezemolo, fu teatro del primo volo su CAI-1 dell’ingegnere Gianni Caproni, nonché di manovre d’appoggio alle forze terrestri in Monferrato in preparazione della campagna libica.
Sotto gli elogi dei comandanti della Malpensa, capitano Gustavo Moreno e tenente Oronzo Andriani, nell’ottobre 1914, Pensuti-Speranza, da provetto collaudatore di apparecchi Caproni sfornati dalle fabbriche Breda ed a motori Fiat ed Isotta Fraschini, testò con successo il triplano militare, reputato dal generale e regio ispettore Maurizio Moris un progetto tecnicamente sbagliato e che, invece, sarebbe stato il più piccolo aereo della Grande Guerra, passato alla storia come il Breda-Pensuti o Caproni-Pensuti, in entrambi le versioni dalla tipologia ricognitoria e struttura lignea di carlinga, pronto, però, al 1918. Alle cronache nazionali Pensuti-Speranza assurse quando dalla sabauda La Stampa Sportiva, nel febbraio 1915, fu esaltato quale recordman italiano di volo ad oltre cinquemila metri su prototipo del triplano Caproni. Le sue gesta acrobatiche mandavano in visibilio le folle di astanti; ed effettivamente le evoluzioni aeree erano assai di moda e sfruttabili pubblicitariamente ed anche a sfondo benefico. Di molto suscitò interesse Pensuti-Speranza fra i personaggi in vista della nazione, da Guglielmo Marconi che lo considerò esempio mirabile del connubio fra l’aeroplano e l’uomo, ai ministri Scialoja e Corsi. La sua fama sconfinò Oltreoceano, tanto che vollero conoscerlo il capo dell’US Air Force, colonnello Bolling e, fino a dovergli la vita, le stesse personalità della missione americana, che da Milano si dirigevano al fronte bellico.
L’uomo che si librava nell’aria fu un punto di forza della terza Arma dell’esercito italiano, che lo chiamò ad affiancare i tenenti colonnelli Gustavo Moreno ed Arturo Ferrarin alla scuola di istruzione per seicento allievi ufficiali italiani e piloti inglesi ed americani. In questa alacre attività addestrativa, rientrò il principiante romagnolo di Lugo, Francesco Baracca, non ancora l’asso rampante e temibile dai cannoni e mitragliatrici delle trincee ed apparecchi Viatik asburgici. Il tenente Pensuti-Speranza, il 3 ottobre 1917, fu assieme a Carlo Matricardi a bordo del Caproni 450 hp, la punta di spicco dei trentasei omonimi aerei, che su strategia di Gabriele D’Annunzio, dovevano incentivare i raid italiani in corso da mesi sul munito porto di Pola. Il Vate, che per queste imprese istriane otterrà il grado di maresciallo e perciò coniando il fatidico “Eia eia alalà” a viatico del suo volo famoso su Vienna dell’agosto 1918, riponeva grande fiducia nell’ante litteram soldato azzurro aquilano, che nonostante lo spegnimento delle luci di bordo e tre motori in decelerazione, fra l’imperversare delle granate nemiche, pur lontano dallo stormo italico, mentre Matricardi cercava di riparare i danni, proseguì a girare sopra la base di Pola, per distrarre la difesa nemica ed agevolare in area il ritorno dei Caproni, sicché, abbassatosi col velivolo pericolosamente, lo risollevò salpando sicuro verso l’amica costa dell’Adriatico.
Giova ricordare che un altro aquilano si ritaglierà una parte nelle incursioni dei velivoli Caproni a guida D’Annunzio. In veste di osservatore per la beffa ordita agli austriaci, alle Bocche del Cattaro del 4 e 5 ottobre, troviamo un ufficiale esperto uscito dall’Accademia Navale di Livorno, Andrea Bafile, ferito gravemente nel frangente e ivi impegnato, perché, pur se uomo di mare, fu proprio lui l’installatore della bussola nella plancia di comando degli aerei, onde permetterne di rintracciare le rotte giuste nei lunghi tragitti. Non possiamo escludere rapporti di conoscenza fra Pensuti-Speranza e la futura “nostrana” Medaglia d’oro al valor militare, perché il tenente di vascello nativo di Monticchio cadrà da eroe, sul Basso Piave, il 10 marzo 1918. Dopo la disfatta di Caporetto del 24 ottobre 1917, di cui venne reputato unico responsabile il generale Luigi Cadorna – che ebbe modo di studiare le tattiche di fanteria al tempo del suo comando del battaglione “Pistoia” ad Aquila, dal 1900 al 1904 – come è noto, l’esercito italiano resistette grazie alla linea del Piave, per poi lanciare la controffensiva vincente sulle residue truppe austro-ungariche.
Nel marzo del 1918, la rivista Nel Cielo, a proposito della guerra aerea offensiva, asseriva con insistenza doversi porre in atto mediante l’utilizzo di grossi plurimotori dall’elevata potenza. L’esteso impiego degli aeroplani Caproni a supporto degli assalti delle truppe italiane nelle trincee imperiali dal 1915 al’16 aveva dato popolarità tra i fanti a questo nome, usato dagli ignari combattenti di terra per indicare, per antonomasia, l’Aeroplano, che destava ammirazione anche nei fronti esteri, da quelli dell’Albania a quelli della Francia. L’aeroplano per definizione, nei modelli Ca.1, Ca.2, Ca.3, presentava le seguenti caratteristiche: a trave di coda e carlinga trimotore dai 100 a 450 hp con velocità massima di 140 km/h ed autonomia di 4 h, ovvero, un motore centrale ad elica posteriore e motori laterali ad elica anteriore; struttura resistente in legno, rivestimento in tela o compensato, le ali in tela, di circa 22 metri; equipaggio di 2 piloti; infine, più un mitragliatore ed eventualmente un osservatore.
Perplessità manifestò D’Annunzio sulla presenza di rischi nella conduzione del Caproni in versione Fiat 200 hp, in particolare, perché si incorreva nel pericolo dei ritorni di fiamma al carburatore, derivando tale difetto nel sistema dei motori, dalle esigenze di politica industriale. Con la guerra volgente a favore delle sorti della Patria italiana, il 15 aprile 1918, al suo tremilasettantesimo decollo per un’attività di collaudo e successiva ricognizione aerea, Pensuti-Speranza, “il più geniale e prestigioso pilota dei Caproni”, a duemilaottocento metri sopra Vizzola sul Ticino, scorgendo una fiamma al motore centrale, evidentemente dovuta alle ragioni suaccennate da D’Annunzio, si gettò in picchiata per atterrare velocemente, ma per questo il compagno di volo, il tenente Mario Galassini, pur lasciato il proprio seggiolino, non riuscì a recuperare l’estintore in dotazione e spegnere il divampante incendio a bordo. Pensuti-Speranza, in preda ad ustioni pesantissime, risultava ancora in grado di governare il triplano distante tre metri dalla terra, quando una nuova fiammata investì l’apparecchio, che perse il carrello e si capovolse sfasciandosi appena toccata la superficie. Dai rottami incandescenti riuscì ad uscire il prode Galassini, incredibilmente salvo e pronto a liberare dalla carlinga in fumo il suo compagno di volo, che ormai imprigionato al posto di pilotaggio, ivi periva, quasi due mesi prima di Francesco Baracca.
Il Corriere della Sera del 20 maggio 1918 lo elevava a più abile pilota della nazione in armi, perché coi galloni di capitano precipitato ventottenne. D’Annunzio gli riconobbe i tratti del “pilota nato con le ali” su La Stampa Sportiva del 1918. Encomi solenni gli furono tributati dalle gerarchie militari, tipo il tenente colonnello Carlo Cavalla, l’amico personale di questo virtuoso dell’aria. Il periodico L’Aquila” del 20 e 26 maggio 1918 dedicò articoli, a firma di Giuseppe Urbani, alla memoria del “figlio purissimo di Aquila nostra” , le cui spoglie vennero onorate in cattedrale dei SS. Patroni con rito officiato dal canonico Francesco Silveri, alla presenza dei parenti più prossimi, Francesco e Nicolina Speranza, di una folla fervida e delle massime autorità civili e militari locali. Pensuti-Speranza ricevette un “medaglione”, dovizioso di particolari intimi, a cura del fratello minore Mario ed edito a Milano, nel 1919; l’inserimento nella rivista Ali d’Italia a fine 1919, fra gli eletti ed i nomi che più hanno contribuito per le sorti italiche; la lapide commemorativa a Somma Lombarda nella piazza Vittorio Veneto, nel 1919. Alla Cascina Malpensa fu idealmente compreso in una stele agli “eroi del cielo”, astante il principe Umberto di Savoia, scolpita dall’artista Paiti e con epigrafe di D’Annunzio appostavi nel 1926: “Maestro d’ali sommo/che qui eroe d’ogni giorno/tramutando la sapienza in ardire/consegnava al volo certo/ l’opera dei costruttori ansiosi”.
Alla memoria del suo grande pilota-collaudatore dedicò il campo di volo a Taliedo la Caproni, che, congegnato un velivolo, ne basava la produzione sui test proprio di Pensuti-Speranza, e che avrebbe dovuto dare il benestare ad un nuovo prototipo in forza alla Regia aeronautica, fino al 1923. A parere degli osservatori anche internazionali, non sarebbe stato più lo stesso il know how tecnologico-operativo della Caproni, inglobata nella omologa Isotta Fraschini all’atto del riordino dell’industria di settore, condotto durante il fascismo dal ministro Italo Balbo, il trasvolatore da Roma a New York nel ’32, che poi avrebbe dato assenso alla formazione di velivoli leggeri “Pensuti-Speranza”, che sarebbero stati impiegati nella guerra d’Abissinia. Per tornare al clima del primo dopo guerra, l’agenda di celebrazioni nel capoluogo abruzzese non contemplò il sacrificio di questo aviere, aquilano a tutti gli effetti, e questo oblio spiega la mancanza di onorificenze ufficiali alla sua memoria.
Ad Aquila, alle figure senz’altro fulgide di Francesco Rossi, Andrea Bafile, Pasquale De Rosa, furono confinate le suggestioni di massa, oltre la Seconda Guerra mondiale, intitolandosi dalla cittadinanza in sequenza: la caserma Alpini, il Liceo scientifico (n.b., doveva essere dedicato a Guglielmo Marconi, nel 1936), la sede del 13° Reggimento Artiglieria. Pensuti-Speranza aveva dato la stura ad un discorso aviatorio in ambito aquilano, come dal brevetto, apparso nel 1916 sui fogli locali, di un velivolo a propulsione “Aquila” in base al disegno dell’ingegnere francese Eduard Borgo, da prodursi finanziato dal napoletano di stanza al 13’’artiglieria Occhetto, alla officina di Odoardo Frasca. Senza contare le velleità di una scuola di volo al plesso di avviamento militare alla Villa Comunale, raccordata al campo aviatorio di Piazza d’Armi. La parabola di Pensuti-Speranza poté essere richiamabile a livello municipale, se a capo della Caproni sedette l’aquilano ed ex combattente Carlo Perrone, che con il proprietario della flottiglia lombarda, il dottor Gianni, vennero a dirigere il Centro nazionale di studi minerari, voluto ad Aquila da Adelchi Serena nel 1936, per fare del capoluogo abruzzese – sia detto per inciso – il think tank della politica autarchica. Nella concezione programmatica del Grande Comune nel 1927, che previde ridotti infrastrutturali, probabilmente, i due succitati esperti di settore, scartata la piana di Preturo-Coppito, suggerirono di un campo aereo a Pizzone di Bagno, inquadrabile alla IV zona militare di Bari, secondo l’accordo progressivo fra Italo Balbo ed Adelchi Serena nel 1933-35.
Nelle more di queste progettualità, tanto che Carlo Perrone sostenne un aeroporto a Rieti concorrenziale a quello di Pescara, lì realizzato per le esigenze della Grande Guerra, si pensò a rafforzare l’atterraggio di fortuna a Piazza d’Armi per la tratta commerciale Roma-Aquila-Pescara. La buona riuscita di questa installazione indusse l’amministrazione podestarile ad un aeroporto dal profilo turistico, in base alle fibrillazioni della Esposizione Universale di Roma del 1942. Giocoforza, il discorso aviatorio nel capoluogo abruzzese, riprese allo scoppio della Seconda Guerra mondiale, ipotizzandosi per lo scalo di Bagno, hangar e velivoli di addestramento per gli allievi dell’arma azzurra e poi occupanti tedeschi: tutto restò sulla carta e di queste piste, tuttavia, troppo esposte alle correnti di aria, poco o nulla si curarono gli stessi Alleati. Dopo il 1945, L’Aquila, in cerca di approcci ai grandi sistemi di comunicazione, sottese all’aeroporto di Preturo, più recentemente, in funzione della “Regione dei Parchi”, di supposte “Università del Volo” e per la Protezione Civile (intitolato all’ing. Giuliana Tamburrano, perita il 6 aprile 2009), senza che ci fossero degli agganci ideali alla memoria di un personaggio, in grado di fungere da richiamo alla più prestigiosa industria di settore ed in chiave di una generale identità cittadina, ovvero, ad un pilota di valore come Speranza-Pensuti, da ascrivere al grande contributo aquilano per la “quarta guerra d’Indipendenza”. Se dal 1915 al’18 le sorti militari italiane molto debbono alla incidenza strategica, soprattutto dopo la rotta di Caporetto, della flottiglia area, quest’ultima, in valori di efficienza è dipesa dall’opera di collaudo dei velivoli svolta da Emilio Pensuti Speranza.
A conclusione di questa modesta ricostruzione, mi sia concesso dire che del personaggio, nei testi di storia contemporanea locale, non si è mai rinvenuta traccia (absit iniuria verbis!). Forse la causa del dimenticatoio è da rinvenire in uno di quei meandri in cui si dipana la ricerca storica (che in quanto scientifica, per l’appunto, non ha mai fine, come affermava il filosofo Karl Popper nel 1976); o nella circostanza della sua nascita “forestiera”, cioè perugina. Ma in questo caso varrebbe di aggiungere che il nostro eroe mantenne importanti legami con la città d’origine (dove vissero per diversi anni i suoi familiari diretti), a ribadire quanto riportato sopra, e, che, di converso, analoghi discorsi di esclusione storiografica potrebbero farsi per altre personalità non aquilane e che sono state invece reputate meritevoli, e, sia chiaro giustissimamente, di massima considerazione civica: la medesima che dovrebbe riconoscersi, minimante, a questa figura, con tutte le disquisizioni su di un’epoca cruciale, ma a tutti gli effetti aquilana.