(Ph © Trutta| Dreamstime.com)

A scadenza fissa ritornano le cronache dei contrasti ideologici di matrice razzistica delle varie tifoserie calcistiche delle squadre del nord e di quelle del sud. Le cronache si ripetono quando negli stadi si verificano incidenti, si notano striscioni stupidi, si ascoltano cori imbecilli.   Ma la verità è che quella mentalità deteriore sempre cova nelle menti di quegli attori fino a quando non va a manifestarsi come sfogo di un malessere personale nelle forme che vediamo e che sappiamo; e si autoalimenta per scatenarsi poi in modo peggiore nei nuovi atti di assurda prevaricazione, con il più completo disonore dei loro artefici. Tutte quelle manifestazioni, altro non  sono se non il segno evidente del ritardo culturale e civile in cui versano gli autori di tali azioni, di cui è piena la cronaca giornalistica.   

 Si riteneva che il gioco del calcio, in mancanza di altre agenzie educative (o in sintonia con esse), potesse aiutare a crescere i supporter di tutte le squadre, aggregando simpatie e passioni campanilistiche, che comunque avrebbero finito col  favorire la socializzazione; e con essa la conoscenza di altre persone, di altre città, incontrate periodicamente con lo scorrere del calendario delle gare ufficiali, in un tessuto di relazioni secondo un cerimoniale di accoglienza e di gesti di reciproca solidarietà. Tutto questo all’interno di un sistema, il gioco del calcio, che come sport attivo avrebbe dovuto esaltare la lealtà e il rispetto delle regole in campo, mentre come area sociologica di più ampio impegno e interesse avrebbe fornito motivazioni alla vita associativa dei tifosi, ispirandosi a elementari regole di vita (civiltà, cultura, dignità e rispetto) per tutti quelli che partecipano alle dinamiche di quel particolare flusso turistico, legato alle trasferte dei club.   A questo innanzitutto servono le associazioni, i club, i gruppi, compresi quelli sportivi: ad evidenziare l’identità culturale degli associati, ma solo per fargli superare blocchi psicologici e ritardi di civiltà; non certo a confondere l’individualità di ognuno e annullarne la responsabilità individuale, nella informe e anonima amalgama collettiva.  

E invece . . .    Di fronte ai contrasti esasperati delle tifoserie delle diverse squadre di calcio, e alle conseguenti controversie: offese,  polemiche, azioni disciplinari o addirittura giudiziarie, ricorsi e contro-ricorsi, di cui è ricca la cronaca, proprio in opposizione a tutto ciò, voglio ricordare alcuni episodi risalenti all’esperienza personale avuta, da uomo del sud di origine e formazione,  con amici e colleghi, uomini del nord a tutto tondo.   

Non intendo parlare di quegli stupidi comportamenti che mantengono persone che non sono capaci di relazionarsi e di confrontarsi mantenendo fermo nella mente che l’altro, chiunque sia, comunque deve essere rispettato. Di fronte a questi atti di marcata intolleranza ho sempre evitato di fare polemica, perché “a lavar la testa all’asino…”; perciò ho sempre cercato di offrire all’ottuso di turno esempi di dignità e di tolleranza. Se ci sia riuscito non so.  

Al contrario, preferisco raccontare di quelle situazioni che hanno fatto chiarezza di pregiudizi e di comportamenti conseguenti, non proprio sereni, nella valutazione dell’altro. Nell’una e nell’altra direzione, perché, nonostante il permanere di quei pregiudizi, si era pur sempre amici o colleghi, e si continuava a rimanere tali. Se pure con qualche forma di circospezione.    

 Al nord, ho lavorato in una grande stazione ferroviaria. E ho avuto modo di apprezzare la precisione e il senso del dovere dei colleghi di quelle regioni. Insieme a qualche difettuccio. E chi non ne ha?   In questa stazione centrale  delle Ferrovie dello Stato, un giorno ero in servizio alla biglietteria dietro uno dei tanti sportelli aperti nelle ore di punta quando più numerosi sono i viaggiatori: studenti, lavoratori pendolari, turisti, viaggiatori occasionali. Si affollavano in lunghe file nell’atrio della biglietteria senza lasciarci neppure uno spiraglio da vedere di che colore fosse il cielo: un collega alla destra, uno alla sinistra, e così di seguito, a ranghi compatti, per tutta la linea degli sportelli come in una trincea, cercavamo si smaltire la massa dei viaggiatori.   

A sinistra avevo Menini, a destra il Titta – così chiamavamo Augusto Piubello, e tutti e tre, come gli altri fino all’ultimo sportello, eravamo alle prese con la macchina automatica in dotazione all’epoca: la Sasib, la quale, dopo averlo ingoiato, il cartoncino rettangolare bianco, lo stampigliava per risputarlo come un biglietto ferroviario: data, destinazione, importo, validità e numero di serie. L’operatore doveva selezionare su richiesta del viaggiatore la città di arrivo; e lo faceva sopra un grande pannello su cui scorreva la striscia di plexiglass, diafana, con un movimento orizzontale/verticale, come se seguisse un’immaginaria coppia di assi cartesiani. Per accelerare le operazioni di pagamento, ognuno aveva escogitato la sua tecnica personale nel calcolare il resto da dare insieme al biglietto, visto che la maggior parte della clientela pagava con valuta cartacea di taglio elevato.  

A tutti noi sarà capitato di avere avuto qualche discussione agli sportelli pubblici su chi dovesse procurarsi la moneta spicciola, se il cliente oppure l’impiegato di servizio allo sportello. Ebbene, quel giorno in seguito alla difficoltà in cui si trovava il Titta nel dare il resto al viaggiatore, si animò una controversia, rispettosa e bonaria all’inizio, con un viaggiatore per vedere a chi dei due toccasse andare a procurarsi la moneta contante. Nonostante le iniziali maniere garbate della discussione, nessuno si decideva a cedere adducendo nuove argomentazioni a sostegno della propria tesi. Alla fine perdendo la pazienza il viaggiatore, che fin allora aveva parlato sempre in italiano senza la minima inflessione dialettale sbottò, dicendo nel più schietto napoletano: “Aggio capito: attacca ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone!”. Il Titta restò perplesso, e senza comprendere una parola credette che il simpatico viaggiatore volesse offenderlo.   

Ma quella espressione napoletana era di mia conoscenza, come pure mi era familiare la parlata; però ciò che mi meravigliò fu il fatto che il tipo avesse sanzionato con quella sentenza un battibecco il cui processo io non avevo potuto seguire in tutti i suoi passaggi durante la contrastata operazione di acquisto del biglietto.    Mi stupiva l’esitazione del Titta che a quelle parole, incomprensibili per lui e credute un improperio, non sapesse trovare una risposta, né sapeva perciò come reagire.  Allora per toglierlo dall’impaccio mi sporsi verso il suo sportello fino a farmi vedere dal viaggiatore dall’altra parte del vetro, al quale prontamente risposi: “Sono del tutto d’accordo! Ma anche lei dovrà convenire con me che è sempre meglio attaccare ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone, anziché attaccare  ‘o patrone addò rice ‘o ciuccio. O no?”. (Traduzione: È sempre meglio legare l’asino dove dice il padrone, che legare il padrone dove vuole l’asino).  

 E la cosa si sciolse con una risata generale. Allora il signore, a sua volta sorpreso della risposta, andò a procurarsi la moneta spicciola. La cosa strana si verificò dopo, quando, rimasto solo col Titta, egli mi chiese che cosa avesse detto quel signore e che cosa gli avessi risposto io. Allora, sentita la traduzione che gli feci delle espressioni napoletane, lui mostrò meraviglia che io, napoletano, mi fossi schierato contro un napoletano prendendo le difese di un milanese. Però ancora più grande fu il mio stupore di fronte alla sua meraviglia.    

E ce ne volle per fargli capire che, data la situazione e valutate le ragioni dell’uno o dell’altro, non avevo esitato a mettermi dalla parte di chi secondo me, a torto o a ragione, sembrava essere nel giusto. Milanese o napoletano che fosse.


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