Conoscere il passato, per vivere un presente migliore e guardare con fiducia al futuro. E il futuro in una regione dove troppo si dice e poco si fa, deve essere effettivamente nelle mani dei giovani. Ragazzi di oggi, classe dirigente del futuro. Si dice. Ma cosa si fa? Si sta costruendo veramente? I dubbi sono tanti. La sfiducia pure. Se non può esserci rassegnazione, servono buoni maestri. 
 
Come era un tempo la vita dei ragazzi di Calabria? 
Vogliamo dare uno sguardo al passato con gli occhi degli uomini di cultura di generazioni molto lontane, ma con un forte radicamento sul territorio. Riscopriamo un acquerello del geniale pittore contemporaneo di Siderno, Damocle Argirò, e uno scritto d’uno dei più illustri letterati del Novecento italiano, Corrado Alvaro, di San Luca. 
Il pennello che fotografa. La penna che descrive. 
 
Un acquerello realizzato nei primi anni Settanta. Uno scritto di poco meno di un secolo fa. 
Fissano epoche e raccontano storie. Quando il poco era tutto. E la felicità aveva il volto dell’umiltà, della capacità di sapersi accontentare, divertirsi, sognare. 
I giocattoli “dipendevano dalla natura”. Ora dalla tecnologia. Ieri il calore dell’emozione  manuale del “fai-da-te”. Oggi il freddo rapporto delle dita con  l’elettronica che “fa-da-sé”.
 
Corrado Alvaro così descriveva la vita dei giovani nei nostri paesi negli anni Trenta: “Se dappertutto l’infanzia e l’adolescenza sono la primavera del mondo, in paesi come questi formano la stagione incantata. Qui i ragazzi percorrono gloriosamente le feste e le stagioni, hanno la natura per trastullo; i loro giocattoli sono dipendenti dalla natura, dai frutti, dai fiori: le castagne, le noci, le nocciole, e poi le ciambelle e i dolci delle feste, e poi la canna quando è verde, l’oleandro quando della corteccia si fanno i rozzi flauti; e d’autunno la creta dei colli cretosi”.
 
La stagione incantata che più di un secolo dopo viene testimoniata dai dipinti di Damocle Argirò. 
Ho avuto il privilegio di conoscerlo e di apprezzarlo nei lontani anni Settanta. L’inizio di una bella amicizia. Io giornalista, lui pittore. L’attenzione comune per le specificità del territorio, guardando in faccia la realtà, raccontando e descrivendo la gente, com’era. Damocle mi fece generosamente dono di un acquerello: uno spaccato di vita paesana. Due bambini, un cane, l’antica porta. La speranza, la fedeltà, la storia. Questo si legge, questo ho letto nella sincera rappresentazione di  quella che Alvaro definiva “la stagione incantata”.
A quaranta anni di distanza, scrivo a Damocle Argirò e gli invio una foto del quadro che mi ha regalato. Mi risponde: “Il paese è Mammola, del resto lo si intravede dalla porta, ricordo un po’ anche la via stretta e lunga: i miei vicoli popolari…”. 
 
Mi dice come è nata la passione per la pittura: “Da giovane trentenne, andavo spesso in giro nei paesi con un gruppo di compagni fotografi, scattavo delle foto che a volte non incontravano consenso. Ed allora ho imparato a dipingere sul posto in modo estemporaneo, dal vero”. E poi sottolinea: “Io non trovo l’arte nella modernità, ma nei luoghi poveri, dove sono cresciuto, sotto le mura della Reggia di Caserta, San Leucio ed il paesaggio calabrese mi ha sempre attirato per diversità ma anche per diversa realtà”.
La diversità del paesaggio. La diversità della realtà. Riflettere. E agire. Con l’ottimismo della volontà. 
 

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