The famous cassata of Oplontis (Photo: Adriano Spano/Dreamstime)

When we talk about archaeology, we don’t necessarily think about food. Anyone who is passionate about history, however, knows that there are plenty of sources that, across the centuries, detailed the evolution and recipes of the culinary world of our ancestors.

Archaeologists themselves often come across impressive discoveries related to food, not last the many bread loaves unearthed in Pompeii, where even a thermopilium, a place we could compare to a modern street food place, have been identified very recently.

The interest in how our forefathers used to eat – and how their food tasted like – increased in the past years, bringing together archaeologists, historians, and chefs with the aim of giving new life to some of the most traditional and common recipes of the past. Museums, archaeological sites, and restaurants become a site to explore in an entirely new way history and heritage, with the potential of attracting people to disciplines that usually remain locked inside the ivory tower of academia. This new subject, called archeo-gastronomy, wants to use academic research to produce a very factual and very enjoyable result  – dishes that were consumed centuries ago – in an attempt not only to satisfy our culinary curiosity, but also to bring us all closer to our roots, to the people who lived in our streets, cities, and countryside before us.

If we want to embark on this adventure, the first step is a good analysis of our primary sources, which can be written, but also physical, in the shape of archaeological findings. Let us take the ancient Roman world as an example: the works of Apicius, famous for his De Re Coquinaria,  and Columella, known for De Re Rustica,  and impressive archaeological discoveries made us understand how the Romans cooked and which ingredients they preferred. All this is central to the recreation of the foods they used to eat daily. But there is more because a lot can be learned from the way their plates and cutlery were shaped, as well as the type of cultivations they would select and the animals they would breed.

One of Pompeii’s thermopilia (Photo: Alvaro German Vilela/Dreamstime)

With an attentive work that puts together hundreds of tiny clues, coming from different disciplines, academics and chefs can recreate accurately, that is, using the right type of ingredients and the right cooking instruments, Rome’s favorite delicacies. Some examples? The epytium, a spread made with olives flavored with vinegar and herbs; the rosatum, a famous aromatic wine made by infusing rose petals into Aglianico wine;  the libum, a focaccia-like dish with sheep ricotta, spelt flour, egg, and bay leaves; the Oplontis cassata, a dessert entirely created on the basis of its pictorial representation, but which is not found in any written source, prepared with dry fruit, ricotta, walnuts, and honey. This latter dish is an incredible example of the variety and wealth of historical sources: we often make the mistake of thinking about them as quintessentially written in nature, but information about the past can come in a plethora of shapes and forms, from words to images, from craftmanship to seeds and plants.

While Classical times are probably the most popular historical period when it comes to archeo-gastronomy, the discipline investigates also other moments of our history: Medieval cuisine, in fact, has been just as popular as ancient Roman’s, and we shouldn’t forget about the incredible, over-the-top banquets of the Renaissance, although it may be difficult to recreate their flamboyancy today! Even historical eras closer to our own, such as the 19th century or the two world wars, are interesting periods to study and discover from a culinary point of view, especially because they often show the ingenuity people had in times when food was scarce.

Archeo-gastronomy is certainly a fascinating topic, but could it actually become a source of income and a tourist attraction for a country like Italy, known for its good food and for the wealth and beauty of its archaeological, historical, and artistic patrimony? The answer is: we hope so. Archeo-gastronomy could become a new way to introduce people of all ages to history and to archaeology, to interest the younger generations in what came before them. By bringing together research, academia, and everyday life, it finally offers a more personal, more down-to-earth way to learn about the past, without missing out on accuracy, details, and academic rigor.

As demonstrated by the ubiquitous success of scientific and historical communicators such as Alberto Angela, whose books about ancient Rome never fail to become best-sellers in Italy (and have also been translated into English), and whose prime time TV shows regularly beat trendy reality TV such as Love Island or Big Brother, there is a thirst for knowledge in the country, people want to learn and is eager to do it. Italians love culture, but we need to make it accessible to everyone, we need to show that culture is not only for “those who went to college:” it belongs to all, especially in countries like ours.

Quando si parla di archeologia, non si pensa necessariamente al cibo. Chiunque sia appassionato di storia, sa però che esistono moltissime fonti che, attraverso i secoli, hanno dettagliato l’evoluzione e le ricette del mondo culinario dei nostri antenati.

Gli stessi archeologi si imbattono spesso in impressionanti scoperte legate al cibo, non ultime le numerose pagnotte di pane dissotterrate a Pompei, dove addirittura un thermopilium, un luogo che potremmo paragonare a un moderno street food, è stato identificato in tempi recenti.

L’interesse per come mangiavano i nostri antenati – e per il sapore del loro cibo – è aumentato negli ultimi anni, riunendo archeologi, storici e chef con l’obiettivo di dare nuova vita ad alcune delle ricette più tradizionali e comuni del passato. Musei, siti archeologici e ristoranti diventano un luogo per esplorare in un modo completamente nuovo la storia e il patrimonio culturale, con il potenziale di attrarre persone verso discipline che di solito rimangono chiuse dentro la torre d’avorio del mondo accademico. Questa nuova materia, chiamata archeo-gastronomia, vuole usare la ricerca accademica per produrre un risultato molto concreto e molto divertente – piatti che venivano consumati secoli fa – nel tentativo non solo di soddisfare la nostra curiosità culinaria, ma anche di avvicinarci tutti alle nostre radici, alle persone che vivevano nelle nostre strade, città e campagne prima di noi.

Se vogliamo intraprendere questa avventura, il primo passo è una buona analisi delle nostre fonti primarie, che possono essere scritte, ma anche materiali, sotto forma di reperti archeologici. Prendiamo come esempio l’antico mondo romano: le opere di Apicio, famoso per il suo De Re Coquinaria, e Columella, noto per il De Re Rustica, insieme a impressionanti scoperte archeologiche ci hanno fatto capire come cucinavano i Romani e quali ingredienti preferivano. Tutto questo è centrale per ricreare i cibi che mangiavano quotidianamente. Ma c’è di più, perché molto si può imparare da come erano fatti i loro piatti e le loro posate, così come il tipo di coltivazioni che sceglievano e gli animali che allevavano.
Con un lavoro attento che mette insieme centinaia di piccoli indizi, provenienti da diverse discipline, accademici e chef possono ricreare accuratamente
, cioè con il giusto tipo di ingredienti e i giusti strumenti di cottura, le prelibatezze preferite di Roma.
Alcuni esempi? L’epytium, una crema spalmabile a base di olive aromatizzate con aceto ed erbe; il rosatum, un famoso vino aromatico ottenuto dall’infusione di petali di rosa nel vino Aglianico; il libum, una focaccia con ricotta di pecora, farina di farro, uovo e alloro; la cassata di Oplontis, un dolce interamente creato sulla base della sua rappresentazione pittorica, ma che non si trova in nessuna fonte scritta, preparato con frutta secca, ricotta, noci e miele. Quest’ultimo piatto è un incredibile esempio della varietà e della ricchezza delle fonti storiche: spesso facciamo l’errore di pensarle come scritte per definizione, ma le informazioni sul passato possono arrivare in una pletora di forme, dalle parole alle immagini, dall’artigianato ai semi e alle piante.

Mentre l’epoca classica è probabilmente il periodo storico più popolare quando si parla di archeo-gastronomia, la disciplina indaga anche altri momenti della nostra storia. La cucina medievale, infatti, è stata altrettanto popolare di quella degli antichi Romani, e non dobbiamo dimenticare gli incredibili banchetti sopra le righe del Rinascimento, anche se può essere difficile ricreare il loro essere sgargianti come allora! Anche epoche storiche più vicine alla nostra, come il XIX secolo o le due guerre mondiali, sono periodi interessanti da studiare e scoprire dal punto di vista culinario, soprattutto perché spesso mostrano l’ingegnosità delle persone in tempi in cui il cibo era scarso.

L’archeo-gastronomia è certamente un argomento affascinante, ma potrebbe davvero diventare una fonte di reddito e un’attrazione turistica per un paese come l’Italia, noto per la sua buona cucina e per la ricchezza e la bellezza del suo patrimonio archeologico, storico e artistico? La risposta è: speriamo di sì. L’archeo-gastronomia potrebbe diventare un nuovo modo per avvicinare persone di tutte le età alla storia e all’archeologia, per interessare le giovani generazioni a ciò che le ha precedute. Riunendo la ricerca, il mondo accademico e la vita quotidiana, ecco finalmente un modo più personale e concreto per conoscere il passato, senza rinunciare alla precisione, ai dettagli e al rigore accademico.

Come dimostra il successo onnipresente di comunicatori scientifici e storici come Alberto Angela, i cui libri su Roma antica non mancano mai di diventare best-seller in Italia (e sono stati anche tradotti in inglese), e i cui programmi televisivi in prima serata battono regolarmente i reality di tendenza come Love Island o il Grande Fratello, c’è una sete di conoscenza nel Paese, la gente vuole imparare ed è desiderosa di farlo. Gli italiani amano la cultura, ma bisogna renderla accessibile a tutti, bisogna dimostrare che la cultura non è solo per “quelli che sono andati all’università”: appartiene a tutti, soprattutto in Paesi come il nostro.

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