The Romans certainly knew a thing or two about beautiful yet sturdy, long-lasting architecture: I remember thinking just that the first time I visited the majestic Pont du Gard, in the South of France – closer to where I am from than Rome itself – a colossal aqueduct built in the 1st century AD to carry water to Nemausus, the city today known as Nîmes. Two thousand years old and still standing, just like the Coliseum, the Pantheon, or the Arena di Verona. And there is no magic involved, just concrete.
Roman concrete has been studied by modern engineers for decades and it is easy to understand why: it lasts. It lasts more than any of our modern buildings will ever do, but why? To be fair, the Romans didn’t invent concrete, even though they are certainly the ones who made it famous. According to historians, the first concrete structures date back to 6500 BC and were built in Syria and Jordan: Nabatea traders would make houses, floors, and underground water cisterns with it. Later, around 3000 BC, concrete made its appearance in Egypt and China: Egyptians used gypsum mortars and lime in the construction of the pyramids, and a type of cement was also used to build the Great Wall of China, very much in the same period.
But in these instances, the use of concrete was an exception. What made things different in Rome was that, there, building with it became the norm. Concrete, with its initial malleability and its eternal solidity, became the perfect instrument for Roman architects to exercise their ingenuity and creativity: with it, the sky was the only limit.
But Roman concrete – the one that, with marble and travertine, made the caput mundi eternal – was not the same as the one we use these days and it’s all down to chemistry. According to modern researchers, its chemical composition gives it a resistance that modern concrete cannot achieve. Today’s concrete is made largely of portland cement – a combination of baked and crushed limestone, clay, silica sand, chalk, and other minerals – and aggregate, made up of sand and rocks. The aggregate strengthens the concrete and helps save on cement; when, in a final, well-known step, we add water to the mix, chemistry binds together all the elements. Concrete’s composition is such that once this initial chemical reaction is completed, no other takes place: in other words, modern engineers want their concrete to be as chemically inert as possible, to avoid changes in composition that could potentially weaken buildings.
The Romans had a different view of things. Their concrete was a much simpler affair, a mix of limestone and volcanic rock aggregates, easily available around the capital, and this is what made the difference. Contrarily to modern aggregate, volcanic rock is very reactive, which means Roman concrete could remain chemically active even after it hardened. But this was exactly what Roman engineers wanted because continuous chemical activity meant the concrete became harder and stronger in time.
Marie Jackson, a geologist at the University of Utah, whose studies focus on Roman concrete, explained it clearly to BBC Travel’s Alex Fox: “Romans wanted their concrete to react. They chose an aggregate that would continue to participate in the concrete processes over time,” and through which small cracks and damages, in fact, fixed themselves naturally.
It is exactly this ongoing, long-lasting regeneration made possible by volcanic aggregate, that transformed Roman buildings into the symbol itself of longevity. To say it with Renato Perrucchio, a mechanical engineer at the University of Rochester, NY, also cited by Fox in his article, “Modern concrete construction might last 100 years with maintenance, but some Roman structures have survived 1000 years or more, essentially unassisted.” We’re looking at you, Pont du Gard, Coliseum and co.
The idea of using again Roman-style concrete is appealing, especially in light of today’s efforts to create sustainable buildings. Admir Masic, an MIT material scientist, says that modern concrete may be stable, but its production is far from being environmentally friendly because the production of Portland cement causes around 8% of the world’s carbon emissions. Masic and Marie Jackson have been both working on applying their studies on Roman concrete to today’s needs, with the aim of making a more sustainable material.
For instance, Roman concrete only needs to be heated at 900C, basically half of the temperature needed for portland cement: this alone could reduce carbon emissions associated with its production greatly. There are some drawbacks, though, because Roman concrete takes much longer to set than the modern: up to six months, against the 28 days of portland cement. Yet, Masic believes today’s technology and some research could solve the problem, and he has been working on a potential solution himself: injecting Roman concrete with carbon dioxide could reduce curing time to only a handful of days. As he rightly points out in Fox’s article, it isn’t a matter of copying the Romans, but learning from them.
Last but not least, we shouldn’t forget that, thanks to its durability, Roman concrete could make structures stronger and reduce the need to replace them, another nod to sustainable architecture. In the end, to conclude with Masic’s own words: “Making things last longer is perhaps the simplest way to improve sustainability.”
I Romani sapevano certamente un paio di cose sull’architettura bella ma robusta e duratura. Ricordo di aver pensato proprio questo la prima volta che ho visitato il maestoso Pont du Gard, nel sud della Francia – più vicino a casa mia che a Roma stessa – un colossale acquedotto costruito nel primo secolo dopo Cristo per portare l’acqua a Nemausus, la città oggi conosciuta come Nîmes. Duemila anni ed è ancora in piedi, proprio come il Colosseo, il Pantheon o l’Arena di Verona. E non c’è nessuna magia, solo cemento.
Il calcestruzzo romano è stato studiato dagli ingegneri moderni per decenni ed è facile capire perché: dura. Dura più di qualsiasi nostro edificio moderno, ma perché? Ad essere onesti, i Romani non hanno inventato il calcestruzzo, anche se sono certamente quelli che lo hanno reso famoso. Secondo gli storici, le prime strutture in calcestruzzo risalgono al 6500 a.C. e furono costruite in Siria e Giordania: i commercianti di Nabatea ci facevano case, pavimenti e cisterne d’acqua sotterranee. Più tardi, intorno al 3000 a.C., il calcestruzzo fece la sua comparsa in Egitto e in Cina: Gli Egizi usarono malte di gesso e calce nella costruzione delle piramidi, e un tipo di calcestruzzo fu usato per costruire anche la Grande Muraglia cinese, proprio nello stesso periodo.
Ma in questi casi, l’uso del cemento era un’eccezione. Ciò che rese le cose diverse a Roma fu che, lì, costruire con esso divenne la norma. Il calcestruzzo, con la sua malleabilità iniziale e la sua eterna solidità, divenne lo strumento perfetto per gli architetti romani per esercitare la loro ingegnosità e creatività: con esso, l’unico limite era il cielo.
Ma il calcestruzzo romano – quello che, con il marmo e il travertino, ha reso eterna la caput mundi – non era lo stesso di quello che usiamo oggi ed è tutta colpa della chimica. Secondo i ricercatori moderni, la sua composizione chimica gli conferisce una resistenza che il calcestruzzo moderno non può raggiungere. Il cemento di oggi è fatto in gran parte di cemento portland – una combinazione di calcare cotto e frantumato, argilla, sabbia silicea, gesso e altri minerali – e aggregato, composto da sabbia e rocce. L’aggregato rafforza il calcestruzzo e aiuta a risparmiare sul cemento; quando, in un ultimo, ben noto passo, aggiungiamo l’acqua alla miscela, la chimica lega insieme tutti gli elementi. La composizione del cemento è tale che una volta che questa reazione chimica iniziale è completata, non ne avviene nessun’altra: in altre parole, gli ingegneri moderni vogliono che il loro cemento sia chimicamente il più inerte possibile, per evitare cambiamenti nella composizione che potrebbero indebolire gli edifici.
I Romani avevano una visione diversa delle cose. Il loro calcestruzzo era qualcosa di molto più semplice, una miscela di calcare e aggregati di roccia vulcanica, facilmente disponibili intorno alla capitale, ed è questo che ha fatto la differenza. Contrariamente agli aggregati moderni, la roccia vulcanica è molto reattiva, il che significa che il calcestruzzo romano poteva rimanere chimicamente attivo anche dopo l’indurimento. Ma questo era esattamente ciò che gli ingegneri romani volevano, perché la continua attività chimica significava che il calcestruzzo diventava più duro e più forte nel tempo.
Marie Jackson, geologa dell’Università dello Utah i cui studi si concentrano sul calcestruzzo romano, lo ha spiegato chiaramente ad Alex Fox di BBC Travel: “I Romani volevano che il loro calcestruzzo reagisse. Scelsero un aggregato che avrebbe continuato a subire i processi del calcestruzzo nel tempo”, e attraverso il quale piccole crepe e danni si fissavano naturalmente.
È proprio questa rigenerazione continua e duratura, resa possibile dall’aggregato vulcanico, che ha trasformato gli edifici romani nel simbolo stesso della longevità. Per dirla con Renato Perrucchio, ingegnere meccanico dell’Università di Rochester, NY, sempre citato da Fox nel suo articolo, “Le moderne costruzioni in cemento potrebbero durare 100 anni con la manutenzione, ma alcune strutture romane sono sopravvissute 1000 anni o più, essenzialmente senza manutenzione”. Vi teniamo d’occhio Pont du Gard, Colosseo e co.
L’idea di utilizzare di nuovo il calcestruzzo alla romana è allettante, soprattutto alla luce degli sforzi odierni per creare edifici sostenibili. Admir Masic, scienziato dei materiali del MIT, dice che il cemento moderno può essere stabile, ma la sua produzione è lontana dall’essere ecologica, perché la produzione di cemento Portland causa circa l’8% delle emissioni di carbonio nel mondo. Masic e Marie Jackson hanno lavorato entrambi per applicare i loro studi sul calcestruzzo romano alle esigenze di oggi, con l’obiettivo di realizzare un materiale più sostenibile.
Per esempio, il calcestruzzo romano ha solo bisogno di essere riscaldato a 900C, praticamente la metà della temperatura necessaria per il cemento portland: solo questo ridurrebbe notevolmente le emissioni di carbonio associate alla produzione. Ci sono alcuni svantaggi, però, perché il calcestruzzo romano richiede molto più tempo di quello moderno: fino a sei mesi, contro i 28 giorni del cemento portland. Tuttavia, Masic crede che la tecnologia di oggi e alcune ricerche potrebbero risolvere il problema, e lui stesso ha lavorato su una potenziale soluzione: iniettare il calcestruzzo romano con anidride carbonica ridurrebbe il tempo di indurimento ad appena una manciata di giorni. Come giustamente si sottolinea nell’articolo di Fox, non si tratta di copiare i Romani, ma di imparare da loro.
Ultima cosa ma non meno importante, non dobbiamo dimenticare che, grazie alla sua durata, il calcestruzzo romano potrebbe rendere le strutture più forti e ridurre la necessità di sostituirle, un altro cenno all’architettura sostenibile. Alla fine, per concludere con le parole di Masic: “Far durare le cose più a lungo è forse il modo più semplice per migliorare la sostenibilità”.
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