La poetessa, aforista e scrittrice italiana Alda Merini: ‘Quelle come me - scrisse - guardano avanti, anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro’ (Ph 3321704 da Pixabay)
Il 5 Agosto 1966 viene pubblicato dai Beatles l’album  “Revolver” che contiene una splendida canzone che porta come titolo il nome stesso della protagonista, Eleanor Rigby.
 
Ma chi era questa donna la cui lapide tombale si trova ancora oggi nel cimitero di St. Peter’s a Liverpool? Era una creatura definita “lonely”, descritta nella sua solitudine mentre raccoglie il riso che è stato lanciato al termine di un matrimonio.
 
L’ immagine, molto espressiva, rappresenta la felicità che appartiene agli altri, mentre a lei non rimane che raccogliere le briciole di una gioia altrui. Eppure Eleanor non prova rancore verso chi è più fortunato di lei, si limita a sorridere ed ad attendere la sua parte di felicità, finché un giorno arriverà, come per tutti, la sua ultima ora e nessuno si recherà al suo funerale, nessuno si ricorderà che lei è esistita.
 
“No one was saved”, nessuno si salvò, cantano i Beatles al termine della canzone, con allusione al fatto che né lei né Padre Mc Kenzie, altro personaggio della storia completamente ignorato dal mondo nonostante i suoi sforzi, dopo la loro morte piacquero a Dio: una visione sicuramente buia e pessimistica della solitudine, senza speranza, irreversibile.
 
Lo stato di Eleanor non è semplicemente quello di chi non ha un compagno sentimentale nella vita, ma è esistenziale, radicale e, anche in mezzo ad una folla, è in grado di fare avvertire la propria muta ma costante presenza. Sì, una compagnia continua, persistente, che non abbandona mai, nonstante gli infiniti sforzi che si possano e vogliano compiere, è un destino che accompagna dalla nascita alcune persone fino alla morte, una qualità innata al negativo.
 
La poetessa milanese Alda Merini (1931 /2009) aveva intuito ciò molto chiaramente se nei suoi versi leggiamo:
“S’anche ti lascerò per breve tempo, solitudine mia,
se mi trascina l’amore, tornerò,
stanne pur certa;
i sentimenti cedono, tu resti”.
 
Fatta rinchiudere in manicomio  per volere del marito a causa di un’ennesima escandescenza  e dovuta in grande parte ad un passato devastante, in clinica visse un’ esperienza drammatica, che cambiò radicalmente la sua vita e la rese definitivamente e inesorabilmente sola.
 
Unicamente i suoi versi le erano rimasti di compagnia, solo la poesia era ormai la sola in grado di capirla, di aiutarla a confidarsi, ad aprirsi…
La sua malattia rappresentò da un lato la causa della totale chiusura della sua finestra sul mondo, la fine di ogni rapporto umano, dall’altra accentuò oltre misura la sua già intensa e innata sensibilità, permettendole di percepire quello che alla gente comune sfuggiva, quello che le “persone normali” vedevano, ma non afferravano.
 
Emily Dickinson (1830/1856), poetessa americana, venne cresciuta in un clima fortemente puritano e condusse un’esistenza del tutto priva di eventi; la sola esperienza degna di nota fu l’essersi follemente innamorata di un Pastore protestante che incontrò la prima volta a Philadelphia e che la ingannò, non rivelandole di essere già sposato.
 
Questo tradimento e questa cocente delusione condussero la giovane Emily ad una reclusione netta dal mondo circostante, ad un rifiuto drastico di ogni comunicazione umana…
A partire dall’età di 24 anni fino al giorno della sua morte rimase infatti chiusa in camera e non volle nemmeno che fossero divulgate le sue numerosissime poesie (più di mille), ma assolutamente distrutte alla sua morte.
 
In questo modo non solo lei, ma neppure le sue splendide creature avrebbero mai dovuto più comunicare con il mondo esterno.
Fortunatamente la sua produzione si è salvata e così possiamo ammirare e amare questi versi: 
 
“Ha una solitudine lo spazio
Solitudine il mare
Solitudine la morte
Ma queste saranno compagnie
In confronto a quel punto più profondo
Segretezza polare,
Un’anima davanti a se stessa:
Infinità finita”. (Solitudine)
 
Tre donne, tre esempi di abbandono da parte del mondo e a loro volta di  rifiuto del mondo. Per eccessiva sensibilità e delicatezza, per malattia, per amore? Non lo sappiamo, possono essere innumerevoli le ragioni che conducono una persona a questa condizione, ma deve rimanere comunque una sola la considerazione finale di Arthur Schopenhauer: “La solitudine è il destino di tutte le grandi menti”.
 

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