Il Museo di storia naturale si trova nel Fontego dei Turchi, importante palazzo di Venezia sul Canal Grande (Ph. Luca Ferrari)

Un gigante. Un’epoca facile ai miti e alle leggende. Una città che suscita ancora meraviglia e una storia avvolta nel mistero.
C’era una volta, a Venezia, un campanaro molto alto. E questa è la sua storia o meglio, è la storia di quel che di lui è rimasto.

Lasciandosi avvolgere da inquietudini dickensiane, eccoci a riscoprire le leggende più tenebrose che arrivano da tempi ormai lontani che compongono la storia di una Venezia che si raccoglie nel suo passato dalle tinte più fosche. Al volger del crepuscolo, tra le calli della laguna si possono fare degli incontri piuttosto insoliti. Si può perfino incontrare un campanaro, o ciò che ne rimane, alla disperata ricerca di redenzione. Siete tutti avvisati: leggete solo se non siete facilmente impressionabili o se non vi state apprestando a fare un viaggio là dove aleggia ancora il mistero e l’alone di tenebre che questa storia porta con sè. Altrimenti, vi dovrete guardare le spalle perchè ne sentirete la silenziosa presenza.

Camminare per l’antica Repubblica Marinara è sempre un’esperienza. Più calano le luci, più si ha la sensazione che qualcosa di prodigioso si possa manifestare da un momento all’altro. Forse una fata in volo sopra i camini dogali, o magari un pifferaio magico in trottata fischiettante… chissà. E più si abbandona la Venezia conosciuta, i sentieti battuti dalle frotte dei turisti, più è facile lasciarsi sedurre dall’atmosfera inusuale di questa città magica, che tra i suoi palazzi tratteggia i confini dell’ignoto.
Sbarcato alle Fondamenta Nove, sono diretto all’interno del sestiere di Castello. Superato campo San Giovanni e Paolo, con annesso stupore dinnanzi all’imponente architettura dell’omonima basilica, prendo il sotoportego fino a entrare in Corte Bressana.

Proprio qui, molto tempo fa visse uno degli ultimi campanari di San Marco. Un uomo che non passava certo inosservato vista l’imponente statura, che arrivava a toccare i due metri di altezza, piuttosto insolita per l’epoca. Fu così che un giorno, il direttore di un istituto scientifico locale lo avvicinò proponendogli una generosa offerta: che una volta morto potesse utilizzare il suo scheletro per collocarlo nelle sue collezioni da esposizione. Una richiesta molto strana, non c’è che dire. Lo avremmo pensato tutti, ma perché non accettare? “Soldi per un impegno quando non ci sarò più. Il lavoro più facile del mondo”. Le parti dunque si accordarono con un regolare contratto e così il vecchio campanaro iniziò a spassarsela in osteria con la somma intascata. Un sollazzo però che ebbe vita breve poiché il troppo gozzovigliare in tempi rapidi lo portò diritto alla tomba e il suo scheletro venne dunque messo sotto vetro ed è ancora oggi visibile al Museo di Storia Naturale di Venezia.

A questo punto, la storia lascia spazio al mistero. Voci sinistre raccontano che lo scheletro, ogni sera, poco prima di mezzanotte, ritorni in vita ed esca dall’ex-Fontego dei Turchi (la sede del Museo di Storia Naturale), salendo fino in cima al campanile di San Marco per continuare a fare il suo lavoro di campanaro. Finito ciò, eccolo vagare per Venezia fino a tornare nella sua antica dimora, fermando chiunque incontri per racimolare il denaro necessario a ripagare il corpo a chi glielo comprò.

Una storia affascinante, non c’è che dire. Una leggenda riemersa dai meandri del XIX secolo con una lezione, sempre contemporanea, sulla facile ricchezza.
Una vicenda che riporta alla mente, da una parte, la spensierata vendita dell’anima del muratore comunista al medico democristiano nel celeberrimo “Il ritorno di Don Camillo” (1953, di Julien Duvivier), dall’altra al gigante buono presente in “Big Fish” (2003, di Tim Burton), fino ad approdare a “Il canto di Natale” e la malinconia del fantasma di Jacob Marley.

Ora che conoscete la storia del campanaro di Venezia non sarà più lo stesso passeggiare nell’antica Serenissima. D’ora in avanti, anche io, quando sentirò i dodici rintocchi della notte, lascerò cadere una monetina. La farò tintinnare un po’, con la speranza che il debole frastuono raggiunga il vecchio campanaro e che col tempo possa finalmente i denari necessari a trovare un po’ di pace eterna.


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