Prickly pears originally come from South America (Photo: Giuseppe Anello/Dreamstime)

 Among the olive groves and vineyards of sun-drenched Southern Italy, you can find a touch of the New World and, no, I’m not talking about tomatoes… Amid warm, rocky terrains, adorned by the sun’s brilliant touch, we find a plant that seems oddly out of place: the prickly pear. This intriguing botanical transplant, known in Italian as fico d’India, or “Indian fig,” makes us think of the tropics in the heart of the Mediterranean. Originally a native of the arid regions of Central and South America, the prickly pear found an unexpected second home in Italy. Its botanical name, opuntia ficus-indica, might not be on the lips of every Italian, but the fruit it produces is a familiar and beloved feature of the Italian culinary landscape.

Over 7,000 years ago, the people of ancient Mexico were cultivating the prickly pear, a plant that would come to be deeply intertwined with their culture: the fleshy pads of the cactus, known as nopales, and the sweet, succulent fruit, called tunas, were prized elements of their diet. Raw or cooked, the nopales found their way into a variety of dishes, often prepared like a vegetable or incorporated into stews. The tunas, either enjoyed fresh or transformed into beverages, preserves, or even a type of candy, provided both sustenance and pleasure. But the prickly pear was more than food to Pre-Columbian civilizations: the Aztecs, in particular, saw in this plant a treasure trove of medicinal benefits: it was used as a treatment for wounds, a remedy for infections, and a solution to digestive troubles. Even the tiny cochineal insects that made their homes on the prickly pear cacti were put to use: when crushed, these insects produced a vivid red dye that the Aztecs used to color their textiles and cosmetics. Indeed, prickly pear cacti are grown still today to harvest cochineal insects and produce this precious natural coloring. Perhaps, though, the most profound significance of the prickly pear was its symbolic and religious importance: the Aztecs believed their capital city, Tenochtitlán (modern-day Mexico City), was established at a location ordained by their god Huitzilopochtli:  the divine sign the divinity used was an eagle perched on a prickly pear cactus, a powerful image that remains immortalized today on the Mexican flag.

 The prickly pear embarked on its transatlantic journey in the late 15th century, possibly carried back to Europe by Christopher Columbus himself after his first voyage to the Americas. It found in the Mediterranean basin an environment remarkably akin to its original habitat: with its ability to thrive in poor soils and its resistance to drought, the prickly pear quickly spread across Italy’s arid regions, becoming a common sight, particularly in Sicily and Calabria, by the 16th century. The Italian name, fico d’India, reflects the era of its arrival to the peninsula: at the time of Columbus, anything originating from the New World was referred to as “Indian,” based on the initial belief that the explorer had, in fact, reached India. The English moniker “prickly pear” is more descriptive, as it refers to the sharp thorns that guard the fruit (“prickly”) and the pear-like shape of the fruit itself (“pear”). Prickly pears have since become a cornerstone of Italy’s agricultural scenery, especially in the southern regions, as these areas’ warm and arid climates echo the cactus’ original Central American habitats. In Sicily, vast fields of prickly pear cacti stand tall, their vibrant fruits offering a colorful contrast against the backdrop of the region’s rocky landscapes. They are also commonly found in Calabria, Apulia, and Sardinia.

A brightly colored prickly pear (Photo: Marcomayer/Dreamstime)

Over time, the Italians have not just accepted this New World cactus into their landscapes, but also integrated it into their culinary practices. Consumed fresh after carefully peeling off its thorny outer layer, the prickly pear offers a sweet, subtly tangy flavor. It provides a refreshing burst of tropical taste, often compared to a combination of watermelon and pear, that is particularly welcome during Italy’s hot summers. But the prickly pear’s role in Italian cuisine extends far beyond being a simple fresh fruit: transformed into jams, jellies, and desserts, it lends a touch of exotic flavor to the Italian table. It even stars in liqueurs, like the Sicilian Ficodì, renowned for its distinctively sweet taste.

Creative cooks across Italy have found a myriad of ways to bring the unique qualities of the prickly pear into their dishes: diced, it can add a surprising twist to both fruit and savory salads. Its pulp, whether incorporated into cakes, tarts, or pastries, can offer a tropical flair to classic Italian desserts. In Sicily, the fruit is used to flavor gelato and granita. The prickly pear can also be found in savory Italian cuisine: although less common, it can provide a sweet counterpoint to meats in stews or roasts. Italians enjoy even the nopales, the prickly pear’s cactus pads: once their spines are removed, they are cooked and eaten like a vegetable, although this is less common in Italy than in the plants’ original home, Mexico.

 The journey of the prickly pear, from the New World to Italy, is an extraordinary tale of culinary exploration and adaptation and today, the prickly pear is not only a staple of southern Italian cuisine but also a symbol of the Mediterranean landscape’s resilient beauty. 

Tra gli uliveti e i vigneti dell’assolato Sud Italia si può trovare un tocco di Nuovo Mondo e, no, non sto parlando di pomodori… Tra terreni caldi e rocciosi, adornati dal tocco brillante del sole, si trova una pianta che sembra stranamente fuori posto: il fico d’india. Questo intrigante trapianto botanico ci fa pensare ai Tropici nel cuore del Mediterraneo. Originario delle regioni aride del Centro e Sud America, il fico d’india ha trovato in Italia un’inaspettata seconda casa. Il suo nome botanico, opuntia ficus-indica, potrebbe non essere sulla bocca di tutti gli italiani, ma il frutto che produce è una caratteristica familiare e amata del panorama culinario italiano.

Oltre 7.000 anni fa, i popoli dell’antico Messico coltivavano il fico d’india, una pianta che sarebbe stata profondamente legata alla loro cultura: i cuscinetti carnosi del cactus, noti come nopales, e il frutto dolce e succulento, chiamato tunas, erano elementi pregiati della loro dieta. Crudi o cotti, i nopales si sono fatti strada in una varietà di piatti, spesso preparati con verdure o incorporati negli stufati. I tunas, gustati freschi o trasformati in bevande, conserve o addirittura in una specie di caramella, costituivano insieme sostentamento e piacere. Ma il fico d’india era più che cibo per le civiltà precolombiane: gli Aztechi, in particolare, vedevano in questa pianta uno scrigno di benefici medicinali: era usato come cura per le ferite, rimedio per le infezioni e soluzione per i guai dell’apparato digerente. Anche i minuscoli insetti cocciniglia che vivevano sui cactus del fico d’india venivano usati: quando schiacciati, questi insetti producevano una vivida tintura rossa che gli Aztechi usavano per colorare i loro tessuti e come cosmetici. I fichi d’india, infatti, vengono coltivati ancora oggi per raccogliere gli insetti cocciniglia e produrre questa preziosa colorazione naturale. Forse, però, il significato più profondo del fico d’india era la sua importanza simbolica e religiosa: gli Aztechi credevano che la loro capitale, Tenochtitlán (l’odierna Città del Messico), fosse stata stabilita in un luogo stabilito dal dio Huitzilopochtli: il segno divino della divinità era un’aquila appollaiata su un fico d’india, un’immagine potente che rimane immortalata ancora oggi sulla bandiera messicana.

Il fico d’india iniziò il suo viaggio transatlantico alla fine del XV secolo, probabilmente portato in Europa dallo stesso Cristoforo Colombo dopo il suo primo viaggio nelle Americhe. Trovò nel bacino del Mediterraneo un ambiente notevolmente affine al suo habitat originario: con la sua capacità di prosperare nei terreni poveri e la sua resistenza alla siccità, il fico d’india si diffuse rapidamente nelle regioni aride d’Italia, diventando una presenza comune, in particolare in Sicilia e Calabria, entro il XVI secolo. Il nome italiano, fico d’India, riflette l’epoca del suo arrivo nella penisola: al tempo di Colombo si chiamava “indiano” qualsiasi cosa fosse originaria del Nuovo Mondo, sulla base della convinzione iniziale che l’esploratore avesse, in effetti, raggiunto le Indie. Il soprannome inglese “prickly pear” è più descrittivo, in quanto si riferisce alle spine (“pungente”) che custodiscono il frutto e alla forma simile a una pera del frutto stesso (“pera”). Da allora i fichi d’India sono diventati una pietra miliare del paesaggio agricolo italiano, soprattutto nelle regioni meridionali, poiché i climi caldi e aridi di queste aree riecheggiano gli habitat originari del cactus centroamericano. In Sicilia, vasti campi di fichi d’india si ergono alti, i loro frutti vibranti offrono un contrasto colorato sullo sfondo dei paesaggi rupestri della regione, ma sono diffusi anche in Calabria, Puglia e Sardegna.

Nel corso del tempo, gli italiani non solo hanno accettato questo cactus del Nuovo Mondo nei loro paesaggi, ma lo hanno anche integrato nelle loro pratiche culinarie. Consumato fresco dopo aver rimosso con cura il suo strato esterno spinoso, il fico d’india offre un sapore dolce e leggermente pungente. Fornisce una rinfrescante esplosione di gusto tropicale, spesso paragonata a una combinazione di anguria e pera, particolarmente gradita durante le calde estati italiane. Ma il ruolo del fico d’india nella cucina italiana va ben oltre l’essere un semplice frutto fresco: trasformato in marmellate, gelatine e dessert, dona un tocco di sapore esotico alla tavola italiana. E’ protagonista anche nei liquori, come il siciliano Ficodì, rinomato per il suo gusto spiccatamente dolce.

I cuochi creativi di tutta Italia hanno trovato una miriade di modi per portare le qualità uniche del fico d’india nei loro piatti: tagliato a dadini, può dare un tocco sorprendente sia alla frutta che alle macedonie salate. La polpa, incorporata in torte, crostate o pasticcini, può offrire un tocco tropicale ai classici dolci italiani. In Sicilia il frutto viene utilizzato per aromatizzare gelati e granite. Il fico d’india si trova anche nella cucina salata italiana: anche se meno diffuso, può fare da contrappunto dolce alle carni in umido o agli arrosti. Agli italiani piacciono anche i nopales, i cuscinetti di cactus del fico d’india: una volta tolte le spine, vengono cotti e mangiati come un ortaggio, anche se questa modalità è meno comune in Italia che nella patria originaria delle piante, il Messico.

Il viaggio del fico d’india, dal Nuovo Mondo all’Italia, è una straordinaria storia di esplorazione e adattamento culinario e oggi il fico d’India non è solo un alimento base della cucina del sud Italia, ma anche un simbolo della bellezza resiliente del paesaggio mediterraneo.


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