Il terremoto di Amatrice e dei tanti piccoli centri nel cuore della Penisola, ha di nuovo messo in luce la fragilità del territorio appenninico, dei tanti borghi italiani che si sono costruiti nei secoli e che, tra le mura sbriciolate, hanno portato via pezzi di storia del paesaggio. La desolazione che si prova davanti a quel che resta fa capire quanti tesori abbiamo tra le mani e quanto li diamo per scontati senza che in realtà lo siano. Anzi.
Quando visitiamo per la prima volta un luogo, ci soffermiamo su una montagna di particolari, ne cogliamo ogni aspetto, ci sembra di apprezzarne l’essenza. Ci stupiamo che gli abitanti del posto non diano il giusto valore alle cose che li circondano. Perchè ci sembra che ci siano proprio tante cose di cui vantarsi, di cui aver cura, di cui tener conto.
Quando un emigrante torna a casa, cammina tra le vie che lo hanno visto crescere e riscopre, nella memoria, voci, profumi, storie, avvenimenti, incontri. Restituisce momenti di vita a quelle che sembrano solo pietre, strade anonime, vicoli con palazzotti silenziosi.
Ma è la distanza che aiuta a capire, il non aver qualcosa alla portata che ne fa intuire il valore. Come quando ci ammaliamo e apprezziamo la salute che ci consente di fare l’impossibile anche quando vorremmo pigramente concederci un dolce far nulla. E’ una prospettiva che dovremmo tener sempre presente. Ci accorgeremmo di quante cose attorno a noi diamo per scontate.
Tra i tanti edifici sbriciolati dal lungo sciame sismico che ha interessato l’Italia Centrale, si sono lesionati anche molti luoghi d’arte. Questi, forse più di altri, hanno messo in evidenza la frattura di significato che c’è tra gli oggetti e il valore che gli attribuiamo.
Subito dopo l’emergenza, il salvataggio dei sopravvissuti, il recupero delle vittime e l’organizzazione della prima accoglienza degli sfollati, nelle zone rosse sono tornate squadre addestrate a recuperare e mettere in salvo il patrimonio artistico e architettonico nazionale.
Tra polvere, calcinacci e crepe sono riemersi, per essere portati in salvo, tele, sculture, arredi sacri, oggetti d’arte che nei secoli hanno arricchito chiese, musei, palazzi nobiliari ma anche la cultura locale. Sono pezzi di legno, di metallo, tele con colori a olio, stucchi, ceselli, oggetti e materiali che non hanno nulla di così prezioso quanto le vite che si sono perse sotto i tetti crollati, i solai sfondati, i pavimenti che hanno ceduto sotto la pressione tellurica. Eppure, il lavoro del pittore, l’impegno dello scalpellino, le rifiniture dello scultore che possiamo immaginare dentro quei quadri e quelle opere portati in salvo scavalcando mattoni e controsoffittature sfarinate, racconta di una bravura a cui i secoli hanno reso omaggio.
Racconta la devozione di tante persone che si sono inginocchiate per rivolgere una preghiera al santo ritratto su un polittico. Lascia immaginare le sofferenze e le speranze che una silenziosa Madonna con il Bambino, dal volto ora ancora più addolorato, ha raccolto nei secoli da un numero infinito di persone che ne hanno incrociato lo sguardo benevolo. Se chiudiamo gli occhi possiamo vedere le mani che hanno accarezzato i rosari tra i banchi delle chiese, sentire i canti della domenica o dei matrimoni. Possiamo immaginare le scolaresche allegre che tra le sale dei musei preferivano correre che ascoltare la guida che raccontava storie che hanno fatto l’identità dei luoghi.
Quando percorriamo la desolazione che ha lasciato dietro di sè un terremoto, vediamo tutto quel che c’era e ora non c’è più nè ci sarà più uguale a prima nemmeno quando la ricostruzione avrà ripulito strade e rifatto case.
Quel che davamo per scontato torna ad essere al centro dell’attenzione ma con sè porta un senso profondo di perdita, la stessa che si percepisce tutte le volte che si vede un monumento trascurato, uno dei tanti borghi italiani trattato come perla ai porci per l’abbandono generale in cui versa, per le speculazioni egoiste, per l’incapacità di proteggere l’immenso patrimonio a cielo aperto che rende così bello e speciale il Belpaese.