What if we momentarily forgot the history of the construction of Palermo’s Teatro Lirico Vittorio Emanuele, better known as Massimo, and instead let our imaginations run wild, playing detectives to unravel the enigma behind the inscription on the entrance pediment? Would two or three days at most (“due o tre giorni al Massimo”) suffice to uncover the mystery that has intrigued (or puzzled?) many Palermitans – and anyone deeply curious about it – since its inauguration on May 16, 1897?
In Due o Tre Giorni al Massimo, published by Etabeta editions, the following authors delved into this question: Gianni Andrei, Antonio Capitano, Michelangelo Capitano, Giovanni Cassiba, Renato Collodoro, Alessandro La Porta, Cristiano Leone, Domenico Rizzo, and Marianna Scibetta. They engaged in a delightful search for the author of the bronze-lettered phrase welcoming the audience atop the theater’s grand staircase: “Art renews the people and reveals their life. The pleasure of the scenes is in vain if it does not aim to prepare the future.”
This succinct yet cautionary phrase sets the stage for an intriguing account of the birth of Teatro Massimo, its key figures during the construction era, and the narratives of the authors who, while rooting their narrative in the actual history of the building’s construction, sprinkle in a dash of imagination. Through these tales—sometimes shrouded in subtle irony and nostalgic truth-seeking—we are presented with plausible theories, one of which at least, we’d like to believe.
Each author weaves their story with real and probable events, blending in historical figures from Palermo while utilizing literary techniques to best portray the characters as avatars of the era’s protagonists.
The storytelling challenge is quite intriguing, originating from an invitation by a Palermitan transplanted to Rome named Vittoria. Out of love for her birth city and in search of her great-grandmother Teresa’s diary, she initiates a competition through a local newspaper ad. The goal? To identify, via narratives, the author of the phrase inscribed on the façade of Italy’s largest lyric theater and Europe’s third, following Paris’s Opéra National and Vienna’s Staatsoper.
This entire endeavor should be wrapped up in two or three days at most, due o tre giorni al Massimo…
“Words underpin every human expression. They are milestones and bridges, literature, and art. Words weave the fabric of all human faculties. They elevate thought. Words—whether inscribed, sculpted, spoken, or written—contrast with silence; they are history.” This is what Vittoria says to shed light on why she entrusts the narration – and the competition – to uncover the authorship of the engraving on Massimo’s façade.
The book navigates through recollections of her childhood, friendships, and places of yesteryears, granting readers the chance to discover—or rediscover—monuments, landscapes, noble houses, and characters in which the protagonist is enchantingly immersed. Yet, the crux lies in the theories proposed by competing writers. Those who ultimately unveil the mystery and name the true author will receive a generous reward. Few authors heed the call, but their tales, oscillating between fact and fiction, depict a bygone Palermo – narrated without embellishment but occasionally romanticized.
These stories include a mix of reimagined real-life events, made-up characters, and personal perspectives. Some stories might take on the form of a mystery, with literary references like Giovanni Pascoli’s quote “Dreams are the endless shadow of truth” or a character’s dream-like experience. Sometimes, coincidences related to Verdi’s Falstaff – which was performed during the 1897 opening – may play a significant role in the narrative.
The construction account is recounted, documenting the work of architects Giovan Battista Filippo Basile, and his son Ernesto – who succeeded him upon his death – and builders Giovanni Rutelli and Alberto Machì. We also find mention of the statues of the two lions, one by Benedetto Civiletti, symbolizing Tragedy, and the other, Lyric, created by Mario Rutelli, who also had made the bronze quadriga of Apollo atop the triumphal arch at Politeama‘s entrance. The horse pair beside the chariot is Benedetto Civiletti’s work.
There’s even a nod to the Sicilian language, utilized in various story segments but conveniently translated in footnotes, preserving and commemorating linguistic roots.
Between the pages, the wonder of the unknown is evident. It’s a discovery that doesn’t offer answers but raises questions. It promotes growth and touches the heart in places where it’s not the dust that brings tears to the eyes. That very dust that today still stands between a visitor to the theater and the memories that a literary challenge can evoke.
The story of the Massimo speaks of the will of the city administration of the time to build a temple of art. To do so, it was necessary to tear down an entire neighborhood to make way for the 7,730 square meters on which the building stands. The decision to demolish convents, churches, and homes was, of course, not welcomed by everyone. Even a nun who lived in the subsequently demolished convent, refusing to leave, is said to still wander the palace walls. She’s there to carry out her curse of disturbing anyone who doesn’t believe her story.
There is no resolution, then, from the stories that are indeed based on historical research. But they are enveloped in love and curiosity that will never cease, not just among the Palermo residents but also among those who stumble upon reading the anonymous, terse phrase. Only the imagination can answer those seeking the author of the phrase. In a Pirandellian sense, one could say the authors might be One, no one, and a hundred thousand.
E se riuscissimo per un attimo a dimenticare la storia della costruzione del Teatro lirico di Palermo Vittorio Emanuele, meglio conosciuto come Massimo e ci affidassimo alla fantasia di improvvisati investigatori per dipanare la matassa, per risolvere l’enigma della iscrizione sul frontone dell’ingresso? E basterebbero Due o tre giorni al Massimo per scoprire l’arcano che dal 16 maggio 1897 – data della sua inaugurazione – ai nostri giorni incuriosisce (o affligge?) buona parte dei palermitani e di chiunque ne abbia una profonda curiosità?
Ebbene, per le edizioni Etabeta, in “Due o tre giorni al Massimo”, si sono cimentati Gianni Andrei, Antonio Capitano, Michelangelo Capitano, Giovanni Cassiba, Renato Collodoro, Alessandro La Porta, Cristiano Leone, Domenico Rizzo, Marianna Scibetta nella gustosa ricerca dell’ autore della frase incisa a caratteri in bronzo che accoglie il pubblico in cima alla solenne scalinata del teatro e che così recita: “L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”.
Frase lapidaria e contemporaneamente monito che già di per sé prepara a un intrigante racconto della nascita del Massimo, dei suoi protagonisti dell’epoca della costruzione e, attraverso i racconti degli autori che affondano nella storia reale della edificazione dell’imponente edificio ma con quel tanto di fantasia che li rende avvincenti e quasi verosimili, si sviluppano delle teorie – avvolte talora da una sottile ironia e insieme da una nostalgica ricerca di verità – plausibili e alle quali, almeno a una di esse, vorremmo credere.
Ciascun autore ha sviluppato il proprio racconto facendo riferimento, appunto, a fatti davvero accaduti o probabili mischiandoli a personaggi che sono realmente esistiti e che fanno parte della reale storia di Palermo, ma trattandoli con semplici artifizi letterari che, al massimo, potrebbero rappresentare i loro avatar – diremmo oggi – di quelli che furono i protagonisti del tempo.
Il gioco della scrittura è davvero intrigante perché parte dal presupposto di un invito da parte di una palermitana trapiantata a Roma, Vittoria è il suo nome che, per amore della propria città di nascita e alla ricerca del diario della bisnonna Teresa, decide di indire un concorso, tramite un annuncio su un quotidiano cittadino, per trovare, attraverso dei racconti, l’autore della frase posta sul frontespizio del più grande teatro lirico d’Italia e terzo d’Europa dopo l’ Opéra National di Parigi e la Staatsoper di Vienna.
Il tutto dovrebbe accadere in due o tre giorni al massimo.
“Le parole sono alla base di ogni manifestazione dell’uomo, sono pietre miliari e sono ponti, sono letteratura e arte, le parole sono l’intreccio di tutte le facoltà dell’uomo. Le parole sono l’incanto che sublima il pensiero. Le parole quelle incise, scolpite nella pietra, dette o scritte, sono contrapposte al silenzio, sono storia”. Sono parole di Vittoria da cui si può capire il perché affida alla narrazione, al concorso, la risposta alla domanda sull’autore dell’incisione sulla facciata del teatro Massimo.
Il libro si articola tra visite negli spazi della sua infanzia, tra amicizie e luoghi del tempo passato dando al lettore la possibilità di scoprire – o riscoprire – monumenti, paesaggi, case nobiliari e personaggi nei quali la protagonista viene magicamente proiettata come in sogno. Ma il clou delle pagine è racchiuso nell’esposizione delle varie teorie dei concorrenti scrittori che, alla fine, se sveleranno l’arcano, se daranno un nome e quello vero, riceveranno un cospicuo premio. Non sono moltissimi gli autori che rispondono all’appello ma i loro racconti, tra il vero e il fantasioso, narrano di una Palermo che fu, senza nostalgia, ma accompagnando il lettore in luoghi e personaggi alcuni dei quali realmente esistiti e facenti parte della storia della città. Non mancano le sottolineature per l’amore verso Palermo e verso il suo teatro, la sua costruzione che viene raccontata senza immaginazione con documentazione storica anche se a volte romanzata.
A fatti mai accaduti si intrecciano storie rielaborate di avvenimenti reali, di personaggi frutto di costruzioni mentali, di proiezioni di sé. A volte un racconto può assumere i contorni di un giallo e non mancano le citazioni letterarie come, ad esempio, “Il sogno è l’infinita ombra del vero”(Giovanni Pascoli) oppure il protagonista precipita in una direzione onirica soprattutto se si presta attenzione alle coincidenze in cui la musica del Falstaff di Verdi, opera rappresentata all’inaugurazione del 1897, viene percepita in contesti fuori dal teatro ma significativi rispetto alla narrazione.
Non manca neanche il racconto proprio della costruzione, della storia degli architetti Giovan Battista Filippo Basile, del figlio Ernesto succedutogli alla sua morte e delle imprese costruttrici Giovanni Rutelli e Alberto Machì. E sono citate anche le statue dei due leoni rappresentanti l’uno la Tragedia a opera di Benedetto Civiletti, l’altro la Lirica a opera di Mario Rutelli autore, tra l’altro, della quadriga in bronzo di Apollo, in cima all’arco di trionfo che sormonta l’ingresso del teatro Politeama, mentre la coppia di cavalli posta lateralmente al cocchio è di Benedetto Civiletti.
Non poteva mancare un riferimento alla lingua siciliana che viene usata in diverse parti dei racconti ma ben tradotta nelle note a margine, così che sia comprensibile a tutti il significato di ciò che si legge e insieme sia conservazione e memoria delle proprie radici anche linguistiche.
Tra le pagine traspare anche lo stupore dell’ignoto, della sua scoperta che non dà risposte ma genera domande. E fa crescere, e fa commuovere dove non è la polvere che inumidisce gli occhi. Quella polvere che ancora oggi si frappone tra il visitatore del teatro e i ricordi che anche una sfida letteraria può suscitare.
La storia del Massimo racconta della volontà dell’amministrazione cittadina del tempo di costruire un tempio dell’arte per il quale fu necessario abbattere un intero quartiere per fare spazio ai suoi settemilasettecentotrenta metriquadrati in cui si sviluppa l’edificio. La decisione di abbattere conventi, chiese, abitazioni non fu però, ovviamente, gradita a tutti e perfino una monaca che viveva all’interno del convento poi demolito, rifiutandosi di andar via – narra la tradizione – continua ad aggirarsi tra le mura del palazzo, per dar atto alla sua maledizione di disturbare chiunque non credesse alla sua storia.
Non c’è soluzione, dunque, dai racconti che sono il frutto di ricerche storiche, certamente, ma avvolte da un amore e da una curiosità che non cesserà mai di essere non soltanto tra i palermitani ma anche tra coloro che si imbattono nella lettura dell’anonima, lapidaria frase. Soltanto la fantasia può dare risposta a chi cerca l’autore della frase. Pirandellianamente, quindi, può dirsi che gli autori potrebbero essere Uno, nessuno, centomila.
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