Ad ogni calciomercato si sentono sempre le stesse storie: i budget per nuovi giocatori non ci sono e, se si fanno nuovi acquisti, spesso si tratta di giocatori provenienti dalla Serie B, oppure di stelle dei campionati stranieri ormai arrivati agli ultimi anni della loro carriera, e quindi con un valore di mercato ridotto.
Non c’è nulla di male nell’acquisto di giovani provenienti da serie minori e anche i giocatori maturi possono essere utili, specialmente per squadre particolarmente giovani.
Però ci si chiede dove siano finiti i grandi acquisti di una volta.
Ci ricordiamo di quando l’Inter acquistò Clarence Seedorf dal Real Madrid (per poi rivenderlo qualche anno dopo al Milan); quando il campionato di Serie A era una meta ambita dai calciatori di tutto il mondo e giocatori come Andriy Shevchenko, Liam Rush, e Ian Brady (che potevano scegliere di giocare ovunque in Europa) preferivano l’Italia; o di quando anche gli acquisti a livello nazionale facevano notizia in tutto il mondo, ad esempio Gigi Buffon e Lilian Thuram che vennero ceduti dal Parma alla Juventus per 54 e 41 miliardi di euro, rispettivamente.
E chi si ricorda di quel Parma (che assieme alla Lazio), spese talmente tanto per acquistare giocatori famosi che finí in rovina?
Si dice che quei giorni sono finiti grazie alla regola del “fair play finanziario” imposta dall’autorità calcistica europea Uefa, che obbliga le squadre ad arrivare al pareggio del bilancio, proibendo di indebitarsi fino al collo, pena la squalifica dai tornei europei.
Questa regola venne imposta nel 2009, ma mentre le squadre straniere si sono adeguate, quelle italiane no, di consequenza le squadre non possono fare acquisti costosi per non indebitarsi.
Il problema principale è che il calcio in Italia non riesce ad attrarre investimenti.
Una volta erano le squadre dei grandi centri industriali a dominare il calcio europeo (offrivano un equilibrio fra la classe operaia pronta a riempire gli stadi e gli industriali pronti ad investire).
Oggi sono le squadre delle metropoli che riescono a creare un “brand” globale e a dominare il calcio. Basti guardare il declino delle vecchie potenze del calcio inglese: Newcastle, Leeds, e ora anche il Liverpool; mentre le squadre di Londra ormai stradominano il campionato. Solo il Manchester United, guidato da un astuto gruppo di dirigenti americani, è riuscito a creare un brand globale, perché ormai, non sono solo i ricavi al botteghino a far guadagnare le squadre, ma sono i diritti televisivi globali.
Più valore hanno i “marchi” delle squadre, più valgono questi diritti, riuscendo ad attrarre gli investimenti necessari per ottenere successi costanti a livello europeo.
Le squadre italiane, purtroppo, ottengono sempre meno successi a livello europeo e gli investitori sono sempre gli stessi personaggi italiani privi delle risorse necessarie per acquistare talenti ai livelli di una volta.
Recentemente solo l’Udinese si è rivelata una storia di successo nel calcio italiano e non tanto per le vittorie, ma per la sua strategia di acquistare giocatori giovani e sconosciuti a poco per poi rivenderli qualche stagione dopo, quasi sempre a società straniere, a cifre molto più alte, accontentandosi di finire al quarto posto, se proprio la stagione va benissimo, ma spesso ritrovandosi verso le posizioni medie della classifica.
Ci sono però alcuni segnali di miglioramento.
La Roma, ad esempio, ha attratto tre investitori statunitensi. Bisognerà ora vedere se la squadra riuscirà ad ottenere buoni risultati sia in campionato che in Europa, prima che i nuovi proprietari si stanchino del sistema italiano.
Però, mentre Londra conta sei squadre nella sua massima serie, di cui tre di rilevanza europea, Madrid ne ha due, e Parigi e Mosca sono entrambe dotate di squadre ben note per le loro risorse finanziarie, Roma si ritrova con una sola squadra in fase di “recupero” ed un’altra, la Lazio, analizzata in basso.
È da notare che la Lazio è quotata in borsa, mentre la Roma non lo è. Eppure gli americani hanno deciso di investire nella Roma, seppur la Lazio stesse giocando meglio.
Questo perché il presidente della Lazio, Claudio Lotito, è un tipico esempio del “patron” calcistico italiano. Lotito, come del resto Aurelio De Laurentiis (Napoli), Silvio Berlusconi (Milan), la famiglia Agnelli (Juventus), e fino a poco tempo fa, Massimo Moratti (Inter), è proprietario della squadra di calcio non per ricavarne profitti, ma per fini personali.
Da notare anche che la Roma ha trovato nuovi proprietari perché stave fallendo, mentre l’Inter è riuscita ad agire prima di trovarsi con l’acqua alla gola, trovando nell’indonesiano Erick Tohir la tipologia di investitore che ha portato altre squadre ai vertici europei.
Difficilmente le altre squadre italiane seguiranno l’esempio dell’Inter.
Molto probabilmente, si dovrà aspettare che le squadre si avvicinino al fallimento, ma solo le grandi squadre otterranno gli investimenti necessari e ciò significherà che non si potranno più vedere squadre come la Sampdoria o la Lazio che vincono il campionato, bensí sempre le stesse grandi squadre in cima alla classifica.
Lontani sono gli anni d’oro tra il 1986 e il 2006, quando anche se dominavano Inter, Milan e Juventus, spuntavano in cima alla classifica squadre come Roma, Lazio, Parma, o Sampdoria, e il quarto posto in Champions League era comunque sempre tutto da giocare.