Ha gonfiato palloncini vendendo ai collezionisti il suo fiato, ha apposto la firma su corpi nudi trasformandoli in sue creazioni rilasciando tanto di autentica, fino a vendere la sua “Merda d’artista” a peso d’oro. È Piero Manzoni (1933-1963), geniale, irriverente verso il mercato dell’arte, tra i più innovatori e controversi artisti italiani del XX secolo.
E a lui il Palazzo Reale ha dedicato una delle più interessanti mostre del panorama nazionale, promossa e prodotta dal Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale e Skira editore (che ne pubblica il catalogo), curata da Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo in collaborazione con la Fondazione Piero Manzoni.
Come ha detto l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno: “Questa mostra è stata uno dei capisaldi di un palinsesto di eventi culturali che abbiamo voluto dedicare a tutti gli artisti che hanno fatto grande la nostra città e la sua storia, con mostre, concerti, spettacoli e approfondimenti, che si sono snodati in giro per Milano”.
Morto neppure trentenne, stroncato come suo padre da un infarto, Manzoni è riuscito in appena 7 anni di carriera (1956-1963) ad imprimere indelebilmente il suo nome sui manuali di storia dell’arte, ma anche a riscrivere il concetto di collezionismo.
La mostra, la più importante realizzata a Milano dalla sua morte, ha riunito oltre 130 opere, dalle prime pitture ancora “incerte” nate dall’impronta di oggetti sulla superficie bidimensionale di tela, tavola o masonite, sino ai prodotti del corpo (fiato, impronta, placenta e merda), intesi come parte della “totalità dell’essere (artista)”.
Manzoni ci ha talmente immersi in una sorta di effetto sorpresa che cercare di ritrasmettere quel sentimento di stupore che ha assalito il visitatore lungo il percorso espositivo di Palazzo Reale è davvero difficile. Ma andiamo per ordine.
Con la serie “Linee”, iniziata nel 1956, si interroga su come far uscire l’opera dalla bidimensionalità del quadro. Comincia allora a tracciare linee su rotoli di carta, poi arrotolati e chiusi in cilindri neri, con un’etichetta che ne riporta la lunghezza, la data e la firma. Tutto qui? Sì, tutto qui. Geniale.
Non serve neppure aprire il cilindro per accertarsi che ciò che indica l’etichetta sia corretto. È la parola dell’artista a fare da garanzia. E questo è già il punto cruciale di tutta l’estetica di Manzoni.
Certo, far digerire al pubblico un’opera d’arte fatta di una linea potenzialmente infinita tracciata su un foglio di carta arrotolato, non fu proprio facile. Durante l’inaugurazione di una mostra un visitatore, sentendosi offeso e preso in giro da un artista che anziché dipingere una tela srotolava un pezzo lunghissimo di carta davanti agli occhi increduli dei partecipanti, arrivò a strapparlo. Manzoni era già riuscito nel suo intento: “Una linea si può solo tracciarla, lunghissima, all’infinito, al di fuori di ogni problema di composizione o di dimensione: nello spazio totale non esistono dimensioni”.
Poi arrivarono i “Corpi d’aria” (1959), da lui definiti “sculture pneumatiche”: palloncini venduti in kit. 45 esemplari numerati: una scatola di legno contenente un foglio con le istruzioni, un palloncino bianco da gonfiare con un tubicino ed un treppiede su cui poggiare la scultura d’aria. E il gioco è fatto.
Il passo successivo sarà il “Fiato d’artista” (1960), ovvero un palloncino gonfiato dallo stesso Manzoni ed applicato su una base di legno. Gomma che, con gli anni, si è solidificata ed in parte sgretolata, trasformandosi in una “reliquia” dell’opera-evento.
Potremmo andare avanti all’infinito.
Se ciò che conta è l’intervento diretto dell’artista sul “prodotto” arte, ovvero se è l’azione dell’artista a determinare l’opera d’arte, allora Manzoni si trasforma in Re Mida, che a sua volta tramuta in oro tutto ciò che tocca. Ed arriviamo alla “Merda d’artista”. Nel maggio 1961 Manzoni arriva a concepire 90 esemplari numerati. Si legge sull’etichetta “gr. 30. Conservata al naturale (made in Italy)”.
Il passaggio concettuale importante, tuttavia, non è quello di mettere in vendita i propri escrementi, ma è il prezzo. Lo stesso artista, infatti, ne fissa il valore a quello quotidiano dell’oro al grammo. Era la sua una riflessione critica sul consumo e la commercializzazione dell’arte ed in generale sulla società capitalistica dei consumi nell’Italia del pieno boom economico. Inutile dire che le scatolette di “Merda d’artista” hanno superato, negli anni, e di gran lunga, il valore dell’oro.
Il passo successivo sarebbe stato quello di vendere “fiale di sangue d’artista”. Ma non ha fatto in tempo. Come pure, tra i progetti pensati e non ancora realizzati, c’era quello di esporre “persone morte” da conservare “in blocchi di plastica trasparente” (il virgolettato è suo, come compare in alcuni scritti). Se non fosse morto a 29 anni, pur nelle critiche e nella dissacrante ricerca, dove sarebbe arrivato?