Si è conclusa nello scorso mese di ottobre la prima mostra a San Francisco dell’artista figurativo italiano Bruno Pegoretti.
Il pittore originario di Bologna, il quale vanta una collaborazione decennale con il Nord della California, in particolare con la città di Fresno, ha esposto le sue opere presso la Harding Gallery a Union Square.
La mostra di Pegoretti colpisce da subito per la capacità di dare forza vitale ad elementi che potrebbero sembrare banali all’occhio di un osservatore poco esperto.
L’esposizione è articolata su due temi principali: uno più figurativo che rappresenta elementi scelti dal mondo naturale, in questo caso dal mondo marino quasi a rispecchiare il panorama della Baia di San Francisco, mentre l’altro tema è costituito da soggetti più elaborati e concettuali, indiscutibilmente più aperti all’interpretazione, quadri che catturano lo sguardo e l’immaginazione dello spettatore.
Da una parte la composizione della natura, in forma mai banale, dall’altra una realtà tutta da scoprire.
L’Italo-Americano ha intervistato Bruno Pegoretti a conclusione della sua mostra bimestrale.
Quanto è diversa la natura raffigurata nelle tue opere da una natura morta?
Nelle mie opere rappresento qualcosa di molto diverso dalla natura morta, sia perché non rispecchia il mio carattere, sia perché credo che oggi ci sia sempre più bisogno di uscire dalla foto, per poi poterla reinterpretare.
Ovvero nell’era della fotografia digitale, dell’iphone 6, se tu prendi una noce e la metti sul tavolo facendo uno still life io credo che questo rischi di essere un lavoro inutile.
Se invece questa si rompe e in qualche maniera si fa “esplodere” buttandola su uno spazio neutro come in questo caso, ecco che diventa tutta un’altra cosa con un effetto interessante.
La stessa cosa vale nel cercare di ritrarre dell’aglio, delle alici o degli scampi in movimento, o ad esempio, come accade per l’opera “Peanuts”, un pugno di noccioline che, se rappresentate in questa situazione di esplosione raggiungono un maggior livello di complessità.
L’effetto si ottiene con un gioco di luce e ombre. Maggiore è il contrasto, maggiore è la sensazione del venire fuori, che si percepisce anche nei quadri più concettuali che sono tra l’altro i miei preferiti da realizzare.
Come nascono tuoi personaggi diomorfici denominati “Alfred” e “Nora” ?
Il comune denominatore fra tutte le opere è sempre la complicazione, a partire dai dipinti più semplici, fino ad arrivare a complicazioni vere e proprie come queste opere di figure futuribili, costituite da un insieme di elementi sia anatomici, aspetto che mi interessa molto, sia diomorfici.
Il primo personaggio che ho chiamato ‘Alfred’ è uomo se non contemporaneo quantomeno futuribile, che rappresenta quello che sarà di noi quando avremo distrutto tutta la natura.
Per esempio, nell’altra opera della “smashed car”, è una macchina schiacciata, in cui alcuni vedono rappresentato l’uomo contemporaneo, quello che è con i suoi problemi e complicazioni.
Nel secondo personaggio ho immaginato invece una sorta di figura femminile, il cui nome ‘Nora’ è legato al fatto che in quel momento stavo ascoltando un disco di Norah Jones. Secondo me, essa rappresenta ciò che potrebbe diventare la figura femminile nel tempo e nello spazio, se noi esseri umani continuiamo a comportarci nello stesso modo.
Quello che colpisce di più è la presenza di molti elementi differenti, c’è un artista a cui ti ispiri in particolare?
Il pittore italiano del ‘500 Giuseppe Arcimboldo, il quale ebbe molta fortuna in Germania più che in Italia, era l’autore di ‘Teste Composte’ che realizzava mettendo insieme vari elementi dello stesso genere per comporre delle figure allegoriche. Dopo la sua formazione a Milano diventò pittore di corte del principe di Vienna.
La posizione dei vari elementi nelle mie opere non è ovviamente casuale, ma è una composizione elaborata per creare una sorta di testa, busto o figura che sia completa di tutte le parti anatomiche del viso umano.
L’effetto risultante da questi elementi rappresentati rimane comunque aperto all’interpretazione di ciascuna persona, in quanto il giudice finale delle mie opere è sempre lo spettatore.