Cosa ci si poteva aspettare dall’incontro, avvenuto per la prima volta nel ’66, tra Pasolini e New York? Il primo, allora profondamente marxista, cantore dei popoli del Terzo mondo, profetico nel denunciare le minacce della globalizzazione. La seconda, scintillante simbolo del neocapitalismo americano…
Trattandosi di Pasolini ogni previsione viene meno, e l’esito è quanto di più inaspettato possibile: amore.
Il poeta, giornalista, regista, sceneggiatore, attore, paroliere e scrittore italiano, considerato uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo, si innamorò a prima vista della Grande Mela: della sua ostentata e caotica libertà; dell’ingenuità schietta e consapevole dei suoi abitanti; del fermento politico e dei movimenti pacifisti e antisegregazionisti che animavano quegli anni.
“Vorrei avere diciotto anni per vivere tutta una vita quaggiù”.
Disse Pier Paolo Pasolini a Oriana Fallaci, newyorkese d’adozione, che lo intervistò poco prima che ripartisse. Ed è difficile ricordare una frase più bella, detta da chicchessia, a proposito di una città. E ancora:
“È una città magica, travolgente, bellissima… mi dispiace non essere venuto qui molto prima, venti o trent’anni fa, per restarci. Quanto mi dispiace partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambino di fronte a una torta tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale strato gli piacerà di più, sa solo che vuole, che deve mangiarli tutti. Uno ad uno. E nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via”.
Pasolini propose dell’America una lettura che a moltissimi era sfuggita; ne mise in luce la bellezza intatta, la vivacità delle idee e delle correnti politico-culturali, le mille opportunità che può offrirti. Negli Stati Uniti ogni cosa sembrava sul punto di accadere; che poi accadesse o meno, non importava…la storia si faceva lì; le idee lì si trasformavano in atto; lì si viveva con la valigia in mano.
A chi volesse farsi un’idea dell’America di Pasolini, basterà leggere “Marilyn”, poesia che Pasolini scrisse in memoria della Monroe, simbolo anch’essa, proprio come New York, della cultura americana più pura: “Tu… quella bellezza l’avevi addosso umilmente / e la tua anima figlia di piccola gente / non ha mai saputo di averla”.
In un accesso paradossale che si può concedere solo ai poeti, Pasolini paragonò l’America all’Africa, almeno per l’effetto che aveva su di lui. Ma “l’Africa è come una droga che prendi per non ammazzarti. New York invece è una guerra che affronti per ammazzarti”.
Era arrivato negli Usa per la presentazione di due film, “Accattone” e “Uccellacci e Uccellini” al festival di Montreal in Canada, ma non sapeva che sarebbe rimasto dieci intensi giorni nella Big Apple. Conobbe intellettuali ed esponenti dei movimenti di sinistra, membri dello Sncc (Student Nonviolent Coordinating Committee); arrivò a dire che “chi non ha visto una manifestazione pacifista e non-violenta a New York, manca di una grande esperienza umana”.
E New York lo ricambiò.
Da allora, le iniziative dell’Istituto Italiano di Cultura, ma anche delle Università e dei musei, dedicate a Pasolini, sono enormemente cresciute, fino a intensificarsi notevolmente negli anni più recenti.
Nel 2007 la città ha ospitato una grande retrospettiva, che forse in Italia non c’è mai stata, organizzata in sincronia da l’Istituto Italiano di Cultura, la Film Society del Lincoln Center, il Public Theater, La Mama Experimental Theatre Club, la Casa italiana Zerilli Marimò, il Cuny Graduate Center e la Yale University.
Proprio quest’anno, a gennaio, s’è conclusa invece la retrospettiva cinematografica e poetica del MoMa, che ha visto partecipare, nel recital di alcuni brani, oltre all’immancabile Ninetto Davoli, tanti attori italiani come Giuseppe Fiorello, Pierfrancesco Favino, Michele Riondino, Alba Rohrwacher.
C’è da scommetterci che non sarà l’ultima manifestazione in ricordo di quello che sembrava un amore impossibile, e che invece ha dato frutti inaspettati.