Quello di Mario Soldati, scrittore torinese scomparso nel 1999, è uno dei diari di viaggio più affascinanti e sinceri del Novecento italiano.
Affascinante, perché vi si descrive, proprio attraverso i vispi occhi di un giovane migrante, quell’America che negli anni ’30 era per gli europei, molto più che un segno sulla carta geografica, la promessa e l’opportunità di un nuovo inizio; e sincero, perché di quell’aura mitica e quasi allegorica che aleggiava sul Nuovo Mondo, nella prosa di Soldati non v’è traccia, e ogni descrizione, ogni suggestione, ogni istante è immortalato con una vena realistica che ha pochi eguali nella narrativa di viaggio.
Il diario si intitola “America primo amore” (1935), e racconta l’esperienza statunitense dello scrittore, consumatasi tra il ’29 e il ’31, principalmente a New York, dove Soldati usufruì di una borsa di studio alla Columbia University.
Visse la Grande Mela (con qualche puntata a Chicago e dintorni); tenne corsi di storia dell’arte italiana e letture della Divina Commedia; tornò in patria per alcuni dissidi con gli accademici del posto, e dall’avventura cavò questo breve, meraviglioso testo, che ci regala uno spaccato originale e autentico di quell’America al tempo tanto sognata, ma vissuta solo da pochi.
Non è il diario di un professore in trasferta, come sarà l’America amara di Cecchi, né quello di un giornalista inviato, come il De America di Piovene. “America primo amore” è il resoconto di un progetto migratorio interrotto, la narrazione di un giovane entusiasta che “voleva diventare americano” (così diceva), che sbarcava a New York su un bastimento carico di gente più o meno disperata.
E proprio con lo sbarco si apre il libro di Mario Soldati, definendo a piccole pennellate l’esperienza rivelatrice e liberatoria del profilo della città che, dopo settimane di navigazione, finalmente e impercettibilmente si compone nella nebbia: l’apparizione dello skyline più famoso del mondo! “Nessun arrivo è così prepotente”, ci dice lo scrittore. E noi gli crediamo.
Poi il clamore, gente che briga su e giù per il bastimento, tutti a trascinarsi appresso i bauli pesantissimi portati dall’Italia, tutti a gridare “Neviorche! Neviorche!”, mentre le autorità americane si presentano per le pratiche burocratiche da sbrigare.
E già all’arrivo, Soldati comincia la sua opera di demistificazione, di normalizzazione del sogno americano.
“Qualcuno indicava un punto nero nella nebbia e diceva che era la Statua della Libertà. Ma noi si trovava più divertente fermarsi a guardare le innumerevoli anitrelle selvatiche che circondavano il bastimento”.
Nessun pregiudizio, nessuna celebrazione del mito Usa, ma allo stesso tempo nessuna polemica. Soldati apre il suo diario di viaggio con un piglio quasi umoristico, leggero, tutto improntato su una schiettezza giovanile che rende la lettura più divertente e scorrevole che mai.
La New York che trova voce nel libro è quella ruggente dei ‘30s; quella del proibizionismo e dei bar clandestini, dei gangster, del crollo di Wall Street e della disoccupazione, dell’esplosione del cinema sonoro, dell’immigrazione e delle lotte sindacali.
Ed è la New York che fa da sfondo alle vicende del giovane letterato, raccontate in prima persona; le avances insistite ad una ritrosissima ragazza texana, a bordo di un taxi che sfreccia di notte sul ponte di Brooklyn; la folla vociante del subway, in metropolitana, che si accalca nei vagoni mimando una sorta di “grande abbraccio collettivo”; la scoperta del jazz dal vivo, nei locali dei bassifondi di Harlem… un ritratto vivido e vivace di una America sempre vissuta, mai immaginata.
Uno dei brani più spassosi del libro è dedicato all’analisi dei rapporti generazionali tra gli italo-americani (un capitolo si intitola proprio Italo-Americani): gli immigrati di seconda generazione, forti del potersi fregiare della mitica dicitura “Born in the Usa”, vedono di malocchio i padri, beffandoli della loro incapacità di infilare la lingua tra i denti per pronunciare il -th.
Ecco che “the” diventa “de”, “than” diventa “den”… e quella lingua tra i denti diventa uno spartiacque generazionale di profondità insondabili.
È tuttavia nel ritorno in Italia, alle proprie radici, che Mario Soldati vede e descrive il compimento perfetto del movimento migratorio; un movimento ciclico per il quale si desidera e si rimpiange sempre quello che si perde…ora l’Italia, ora l’America.