La sua fu una “coast to coast” d’autore. Negli anni 1950-’51 Guido Piovene, scrittore e giornalista del Corriere della Sera, percorse gli Stati Uniti in macchina per raccontare vita, paesaggi e società di un Paese che affascinava l’Italia e gli italiani. Una terra del benessere dove migravano, anche solo nel desiderio di fuga, migliaia di compaesani in cerca di fortuna.
Nel suo grande reportage “De America” descrive gli americani e le loro città.
Los Angeles, ad esempio, è “nebulosa e centrifuga”, ha una dispersività esasperata per qualsiasi europeo, un tessuto urbano sconfinato e disorientante. Ha “qualche cosa di dispersivo, di astratto, di distaccato, entra nei sentimenti; vorrei aggiungere – scrive Piovene – che non è questo un valore soltanto negativo, come si ritiene in Europa. L’umore predominante è un misto di solidarietà umana generica ed universale”.
Per un italiano, ieri come oggi, arrivare in America è un’esperienza innanzitutto sensoriale: si è messi alla prova sugli spazi sconfinati, su vastità che in Italia non sono associate a città, a spazi abitativi, a comunità sociali di appartenenza. In una Penisola in cui, paese che vai dialetto che trovi, dove cioè è difficile identificarsi con il Comune a 5 km dal proprio, pensare di prendere una freeway per andare a mangiare una pizza con gli amici a 2-3 ore da casa, pur restando nella stessa città, è inimmaginabile soprattutto se è considerato la normalità.
Provano un’esperienza simile solo i romani considerato che la superficie urbana è la stessa di L.A. Ma la maggior parte degli italiani, su distanze simili, ha già attraversato un hinterland di paesi, cittadine e municipi diversi dal proprio. Lo sanno bene milanesi, fiorentini o napoletani.
Nessun italiano però, percorre miglia e miglia senza incontrare per ore città, luci e abitazioni, come succede normalmente in California. Lo spazio, in America, ha una dimensione diversa e per chi emigra è una scoperta.