Ritornava una rondine al tetto, è l'inizio della celebre lirica di Pascoli dedicata al padre (Ph Susanne Edele da Pixabay)
“Questo atomo opaco del Male”. Questa espressione che leggiamo nell’ultimo verso della poesia “X Agosto”, presente nella raccolta ‘Myricae’ di Giovanni Pascoli (1855/1912) vuole manifestare tutta la leggerezza e superficialità, cioè l’immoralità, di un mondo che dimentica subito e facilmente le ingiustizie subite dai deboli. Tale riflessione scaturisce dal ricordo di una vicenda autobiografica del poeta e accademico di origini romagnole, figura emblematica della letteratura italiana di fine Ottocento.
 
Pascoli cita l’omicidio del padre Ruggero: stava facendo ritorno a casa da un viaggio di affari, quando venne freddato all’improvviso il 10 agosto 1867. Questa morte, senza alcuna ragione logica apparente e che resterà impunita, segnò tutta la vita del poeta a tal punto che nei suoi ultimi anni si recò ancora nei luoghi dell’attentato per trovare una spiegazione possibile a quanto accaduto. 
Probabilmente, secondo la critica, Ruggero Pascoli sarebbe stato ucciso per motivi politici, essendo passato dal partito di Mazzini a quello di Cavour e avendo  rinnegando così ideali repubblicani e popolari. 
 
In questa famosissima poesia pubblicata per la prima volta ne Il Marzocco del 9 agosto 1896 e successivamente inserita nella quarta edizione di Myricae, viene impostato un parallelismo tra la sorte, apparentemente insignificante, di una rondine e il destino subito dal padre.  
 
 Ritornava una rondine al tetto:
 l’uccisero: cadde tra i spini;
 ella aveva nel becco un insetto:
 la cena dei suoi rondinini.
 Ora è là, come in croce, che tende
 quel verme a quel cielo lontano;
 e il suo nido è nell’ombra, che attende,
 che pigola sempre più piano.
 Anche un uomo tornava al suo nido:
 l’uccisero: disse: Perdono;
 e restò negli aperti occhi un grido:
 portava due bambole in dono.
 Ora là, nella casa romita,
 lo aspettano, aspettano in vano:
 egli immobile, attonito, addita
 le bambole al cielo lontano.
 
La rondine che viene uccisa mentre vola ansiosa  con l’insetto nel becco verso i suoi piccoli che l’attendono nel nido, pigolando affamati, è collocata parallelamente rispetto a Ruggero Pascoli che sta portando due bambole in dono (anche questo è un cibo, ma spirituale) alle sue bambine. Entrambi sono innocenti ed entrambi lasciano un nido vuoto, privo per sempre della loro presenza.
 
La famiglia per il Pascoli era importantissima, rappresentava un mondo a sè stante, chiuso, bastevole a se stesso, un’unità in cui trovare rifugio e consolazione dai mali del mondo, un motivo per cui vivere e lottare. Di conseguenza, la rottura di tale nucleo viene letta non solo come un’ingiustizia contro un innocente ma come un oltraggio nei confronti della dimensione del ‘sacro’, dell’intoccabile. Ed ecco che il dolore da particolare diventa universale, il male non è dell’individuo, ma di tutti.
 
Non esiste nessun uomo, nessun essere vivente sulla Terra che possa dirsi immune dal male e dal dolore, come già aveva intuito Mimnermo, poeta lirico greco (VII/VI avanti Cristo), nella sua ben nota poesia “Come le foglie”:
 
Breve vita ha il frutto
della giovinezza, come la luce del sole che si irradia sulla terra.
E quando questa stagione è trascorsa,
subito allora è meglio la morte che vivere.
Molti mali giungono nell’animo: a volte, il patrimonio
si consuma, e seguono i dolorosi effetti della povertà;
sente un altro la mancanza di figli,
e con questo rimpianto scende all’Ade sotterra;
un altro ha una malattia che spezza l’animo. Non v’è
un uomo al quale Zeus non dia molti mali.
 
Anche il lirico greco Archiloco (VIII/VII avanti Cristo), nei suoi celeberrimi versi dedicati al suo stesso cuore, aveva intuito l’universalità del male:
 
Cuore mio, devastato da mali senza fine, 
svegliati! c’è da lottare, ai nemici fa’ guerra, 
faccia a faccia combattili, sta’ duro! 
Non esaltarti se vinci, se perdi non chiuderti in casa 
a piangere: sii allegro, sii anche amaro 
ma sii sempre te stesso: tu lo sai 
sotto quale destino l’uomo lotta.
 
Ma tutta questa negatività viene subito dimenticata dagli uomini, mentre solo il Cielo piange su quello che è il nostro mondo, su quello che noi scambiamo per l’universo, per il tutto, mentre è in realtà, coem scrive Pascoli, solo ‘un atomo opaco del Male’:
 
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
 
MYRICAE – E’ una raccolta di liriche di argomento semplice e modesto, ispirata ai temi familiari e campestri. Il titolo riprende i versi iniziali della quarta egloga di Virgilio (“Muse di Sicilia, solleviamo il tono del canto. Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici”) e il nome latino delle tamerici, piante che sono prese a simbolo di una poesia senza pretese, legata alle piccole cose quotidiane e agli affetti più intimi. Il titolo allude cioè ad una poesia volutamente dimessa. 
La prima edizione è del 1891 ma la raccolta crescerà nel tempo passando dalle 22 poesie della prima edizione alle 155 dell’ultima. Con i Canti di Castelvecchio appartiene alle opere che la critica letteraria considera la maggiore espressione di Pascoli.
 
Dai suoi lavori emerge una concezione intima e interiore del sentimento poetico, orientato alla valorizzazione del particolare e del quotidiano e al recupero di una dimensione infantile e quasi primitiva. D’altra parte, solo il poeta può esprimere la voce del “fanciullino” presente in ognuno: quest’idea consente a Pascoli di rivendicare per sé il ruolo, per certi versi anacronistico, di “poeta vate”, e di ribadire l’utilità morale e civile della poesia.
In Pascoli si riconosce spesso il punto di partenza del linguaggio poetico del Novecento, poichè esprime nuove esigenze spirituali, sulla linea di tanti altri poeti e narratori italiani tra la fine dell’800 e il primo Novecento.
 

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