Ci si immagini un fiume lungo più della penisola italiana, con una superficie di drenaggio che la copra per oltre i tre quarti.
Il Fraser, 1368 chilometri di percorso che si snoda interamente in British Columbia, 233 chilometri quadrati di bacino fluviale, non è uno dei corsi d’acqua più importanti del mondo, non è nemmeno tra i più conosciuti. O magari lo è, parzialmente, quando viene associato ai famosi salmoni di cui è habitat, o alla febbre dell’oro che nella seconda metà dell’Ottocento aveva qui richiamato orde di cercatori da tutto il mondo, Italia compresa.
Dopo la Gold Rush della California e prima di quella del Klondike in Alaska, il decennio della Gold Rush del Fraser, tra il 1858 e il 1868, aveva letteralmente rivoluzionato il volto socio-politico dell’intera regione.
Ma quali sono oggi fascino, ricchezza e pericoli di un fiume che influenza tanta parte della natura e della popolazione britishcolumbiana? Anch’io ne faccio parte: vivo sul delta, in un piccolo villaggio di pescatori a due passi dall’oceano.
Di recente ho ripercorso il Fraser, dalla sorgente alla foce, non tanto per ripetere l’impresa dell’esploratore di cui porta il nome quanto invece per andare alla scoperta di memorie e di insediamenti grandi e piccoli di italiani: dai pionieri impiegati come forza lavoro nelle miniere e nella costruzione di strade e ferrovie, ai loro discendenti e ai successivi immigrati inseriti prevalentemente nell’agricoltura e nel commercio, e più tardi negli affari e nelle professioni.
Alla scoperta di tracce antiche e più recenti impresse da gente che ha piantato le proprie tende sulla terra feconda irrorata dal “mio fiume”. Ne ho trovate un po’ ovunque.
È davvero un bel fiume, il Fraser, che deve il nome all’esploratore scozzese Simon Fraser, che fu il primo europeo che nel 1808 seguì il corso del fiume dalla sorgente alla foce. Ha un carattere vivace, mutevole, interessante. Si circonda di bellezza e crea bellezza. Ora umile e quasi nascosto, nasce come un rivoletto ai piedi del monte Robson nelle Montagne Rocciose. Cresce dirigendosi a nord-ovest. Si avvia solitario e tranquillo attraverso Valemount, tocca la piccola Mc-Bride e arriva nell’importante centro di Prince George, dove inizia a socializzare quando mescola le sue acque con quelle del Nechako, il fiume degli storioni giganti proveniente da nord-est (lo farà più tardi a sud incrociandosi con l’azzurro Thompson, il più celebre tra i suoi sussidiari).
Scende quindi attraversando la grande regione del Cariboo: la terra dei rancheri, delle grandi pianure disegnate dalle verdissime colline, del bestiame in libertà, dei cieli azzurrissimi e dei tramonti di fuoco. Esauritosi l’oro, questa è oggi la ricchezza del Fraser, che alimenta con le sue acque le interessanti Quesnel e Williams Lake, va a passeggio tra le varie Mile House, visita Clinton e Lilloet. Si trasforma quindi in minaccia nelle cascate e nelle rapide di Hell’s Gate, drammaticamente creativo e determinato nello scolpire le profondità del Canyon dove passa impetuoso. A Yale (la storica località dei primi cercatori d’oro) decide di riposarsi un po’.
Calmatosi, diventa placido e navigabile da Hope in giù. Si distende e rilassa, sempre più ampio, ad irrorare la fertilissima vallata che porta il suo nome. Sulle sue acque avviene il trasporto di gran parte dei prodotti e sottoprodotti dell’industria forestale, frutto del lavoro di migliaia di operai delle segherie e delle cartiere dell’interno. Vi viaggiano merci utili alle varie comunità. Vi si svolge la pesca commerciale e da diporto. Vi trovano alloggio perfino piccoli nuclei di abitazioni costruite su palafitte, come a Venezia.
A 160 chilometri dalla città di Vancouver e dallo stretto di Georgia, il fiume si allarga a formare la Fraser Valley, con i suoi splendidi insediamenti prevalentemente agricoli di Chilliwack, Abbotsford, Agassiz dove le ac-que si separano scegliendo i due grandi percorsi finali, a nordovest e a sudovest del territorio.
Transita ai piedi della Mission del celebre monastero dei benedettini, con il seminario e la fattoria modello. Ed ancora, sempre percorrendo il Lower Mainland, passa per i centri satelliti urbani e commerciali di Maple Ridge, Fort Langley, Pitt Meadows, Port Coquitlam. Continua a dare carattere alla ex capitale New Westminster, bagna la popolosa Surrey, abbraccia la grande isola di Richmond dall’impronta orientale (vi opera una massiccia popolazione cinese) e disegna subito dopo, prima di sfociare nel Pacifico, la più piccola isola sede dell’aeroporto internazionale.
Il possente fiume (the Mighty Fraser viene chiamato) con il suo delta largo 50 chilometri interessa altre località non sopra nominate. Ho accennato a quelle che registrano presenze di italocanadesi: Prince George con più di cinquecento famiglie dal cognome italiano (esiste qui anche un Italian Club), Quesnel con una settantina, Williams Lake con circa sessanta. Oltre trenta ce ne sono a 100 Mile House, altrettante a Hope. Lungo la Trans-Canada North (l’autostrada numero 16 denominata Yellowhead) nel tratto fra le Montagne Rocciose e Prince George, risultano undici cognomi italiani a Valemount e tredici a McBride: bellissima zona di insediamento e promozione di servizi turistici la prima, snodo di passaggio della Canadian National Railway la seconda.
Nell’ordine della decina i nomi italiani a 70 Mile House, a Clinton, a Lilloet. Numerosissimi quelli dei centri agricoli-commerciali della Fraser Valley: Chilliwack con 140, Abbotsford con oltre 300, più di un centinaio a Mission.
Queste ultime cittadine si adagiano nel Lower Mainland, comprensivo della Vancouver metropolitana, senz’altro meno idillica delle vaste distese agricole e ortofrutticole della Fraser Valley. La bella Vancouver conserva tuttavia le sue oasi di pace nei molti parchi e giardini, nelle zone residenziali e nelle verdi colline dolcemente digradanti verso le acque del Pacifico che le sta di fronte.
In oltre un secolo, la presenza italiana si è fatta davvero ragguardevole nell’area della Greater Vancouver. Le cifre dell’ultimo censimento della popolazione hanno indicato in circa 69 mila gli italiani, di nascita o di origine: oltre la metà dei 126.420 (tra oriundi o immigrati) che vivono nell’intera British Columbia.
Anche chi lo conosce solo in superficie, necessariamente transitando sugli arditi ponti che lo scavalcano o attraverso il tunnel sotterraneo dell’autostrada sud diretta ai vicini Stati Uniti, percepisce l’importanza del Fraser per l’ambiente metropolitano e della regione. La sua ricchezza va tutelata, le sue risorse curate e difese, ne vanno prevenuti decadenza e pericoli, tra i quali l’inquinamento, la progressiva diminuzione della fauna ittica (specialmente del salmone sockeye) e l’uscita delle acque dall’alveo con devastanti inondazioni del territorio, il tutto causato dal “global warming,” quel riscaldamento globale che tanti incontrollati e incontrollabili disastri sta provocando nel mondo.
Il “mio fiume” finisce dove vivo. Il suo estremo braccio sud, prima di sfociare nel Pacifico ad un chilometro da qui, passa sotto le finestre di casa. Non mi stanco mai di sorprendermi.
Vi abitano famiglie di anitre e di oche, vi si affacciano splendidi aironi, vi galleggiano candidi cigni, vi nuotano castori e foche. Lungo gli argini, sulle alte cime delle pioppe, fanno i loro nidi le aquile: pronte a tuffarsi in picchiata quando avvistano qualche salmone che salta fulmineo in superficie. Nuvole di gabbiani e di uccelli migratori, ospiti della vicina riserva protetta, volano in libertà. Le acque sono regolate dalle maree. I pescherecci del lo-cale porticciolo vi si adeguano.
Tutto vi si svolge a ritmi lenti, secondo natura. Quella natura non ancora uccisa dall’uomo.