(Ph Polina Tankilevitch da Pexels)
Quante volte sugli scaffali di un supermercato vi siete trovati di fronte a prodotti italiani di cui non avevate mai sentito parlare?
Improbabili etichette dal suono italianeggiante, capaci di suscitare più di una risata come le “Tagliatelle Milaneza” in Portogallo, la “Palenta” (ovvero la polenta) venduta in Montenegro, o addirittura di stupirvi per evidenti incongruenze come nel caso del “Barbera” prodotto in Romania che, da quelle parti, risulta essere un comune vino bianco.
La lista è lunga. All’estero, secondo le stime di Coldiretti (con un milione e mezzo di associati è la principale organizzazione degli imprenditori agricoli italiani), sono falsi tre prodotti alimentari italiani su quattro.
In particolare, più ci si allontana dall’Europa più il campionario degli orrori si allunga: si va dai formaggi ai salumi, dal caffè ai biscotti, dall’olio di oliva ai condimenti, dalla pasta ai vini.
Alcuni esempi: la “Mortadella Bologna” in vendita negli Usa ottenuta da carne di tacchino, il “Pompeian Olive Oil” che non viene prodotto alle pendici del Vesuvio bensì a Baltimora, un formaggio cinese che di nome fa Pecorino e in etichetta purtroppo esibisce la bandiera italiana, i pomodori San Marzano coltivati in California.
Certi marchi non proprio originali possono tuttavia essere considerati “storici” in quanto legati alle ondate d’emigrazione italiana nelle Americhe. È il caso del “Reggianito” prodotto in Argentina, la cui origine viene fatta risalire tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX ad opera di emigrati italiani che desideravano riprodurre il Parmigiano-Reggiano. Questo formaggio argentino venne riconosciuto dai produttori italiani come un serio concorrente all’esportazione del Parmigiano-Reggiano e fu uno dei fattori che portò alla costituzione del Consorzio di Tutela del Parmigiano Reggiano nel 1934.
Negli Stati Uniti, che insieme ad Australia e Nuova Zelanda figurano tra i principali venditori mondiali di prodotti d’imitazione alimentare italiani, negli ultimi vent’anni si sarebbe registrato un vero e proprio boom di falsi formaggi.
Attualmente appena il 2% dei consumi di formaggio di tipo italiano sono soddisfatti con le importazioni Made in Italy. Per il resto si tratta di falsificazioni ottenute sul suolo americano con latte statunitense.
Nonostante l’appropriazione indebita di bandiere tricolori e dell’uso improprio di parole, località, immagini, denominazioni e ricette italiane, non vuol dire che tutte queste imitazioni siano di cattiva qualità. Anzi, per fare un esempio, il “SarVecchio Parmesan”, clonazione del Parmigiano Reggiano prodotto in Wisconsin, è stato premiato nel 2009 come miglior formaggio negli Stati Uniti.
Il grande successo dei prodotti alimentari pseudo-italiani è da ricercare nel fatto che non esiste all’estero un solido e diffuso gusto italiano.
Se in Europa grazie all’obbligo di etichettatura d’origine dei prodotti e alla registrazione dei marchi Dop, Igp e Stg (Denominazione di origine protetta, Identificazione geografica protetta, Specialità tradizionale garantita), accompagnati dalla garanzia del Consorzio di tutela, si è arrivati a una maggiore familiarità con i veri prodotti del Belpaese e a una limitazione del fenomeno, nel resto del mondo la mancanza di tutela legale dei nostri marchi ha portato alle stelle il fatturato dei prodotti contraffatti.
Se si considera l’esportazione dell’intero settore degli agroalimentari italiani, la stima per il 2012 è stata di 31 miliardi (di cui 12 miliardi di euro corrispondono al valore del mercato dei prodotti tutelati dal marchio Dop).
È invece di oltre 60 miliardi il fatturato dei falsi Made in Italy. Una cifra esorbitante che potrebbe viceversa giocare un ruolo importantissimo nell’economia nazionale.
Il rischio che si radichi nelle tavole internazionali un falso Made in Italy in grado di togliere spazio di mercato a quello autentico, banalizzando le specialità nostrane frutto di tecniche, tradizioni e territori unici, è assolutamente da non correre, soprattutto in tempo di crisi. A preoccupare sono poi le tendenze di Paesi emergenti come la Cina, dove le imitazioni sono arrivate prima dei prodotti originali e possono comprometterne la crescita.
“Pensiamo – spiega Coldiretti – a quanti posti di lavoro si potrebbero generare e quale straordinario motore di sviluppo potrebbe rappresentare una cifra del genere per le casse del nostro sistema agroalimentare. Non è solo una battaglia di bandiera, ma di soldi, sostanza e opportunità di sviluppo”.

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