Dalla Biennale di Venezia alla Galleria Poggiali di Firenze, dai Giardini della Laguna, a via della Scala. L’artista piemontese Fabio Viale (Cuneo, 1975) è tornato a Firenze con una personale alla Galleria Poggiali, dopo una serie di presenze di successo alla scorsa Biennale di Venezia e alla Gipsoteca di Monaco. La mostra Acqua alta – High tide proseguirà fino al 16 maggio 2020 con ingresso libero.
Nella nuova mostra fiorentina Viale propone due diverse installazioni: una per la sede di via della Scala 35/Ar, che arriva direttamente da Venezia, e l’altra, davvero monumentale, allestita nello spazio in via Benedetta 3r, dove sono stati collocati quintali di marmo a formare una ripida “cascata” di pietrisco. Per l’occasione è stato pubblicato un catalogo con un saggio di Sergio Risaliti, direttore artistico del Museo Novecento di Firenze.
Gli spazi di via della Scala sono occupati dal gruppo di sculture che l’artista ha realizzato appositamente per il Padiglione Venezia (ai Giardini) della 58a Esposizione internazionale d’arte – La Biennale di Venezia, conclusasi lo scorso novembre e che ha visto la presenza di un gran numero di visitatori.
Si tratta di una dozzina di monoliti in pietra che replicano a misura reale quei pali in legno di rovere o di castagno alti tre metri e oltre che affiorano nella laguna di Venezia. Questi oggetti sono denominati “bricole”, e servono da segnali per la navigazione. Quelle realizzate da Viale imitano il legno in maniera così stupefacente da far credere che queste sculture siano in realtà dei calchi.
L’allestimento odierno ricorda quello veneziano, cui si è aggiunto un dato di cronaca che ha trasformato disgraziatamente il virtuale in reale. Nel Padiglione ai Giardini, infatti, il paesaggio originale, cioè quello dei canali e della laguna veneziana caratterizzati dalle bricole, veniva evocato con una installazione multisensoriale che immergeva i visitatori in una ambiente realistico grazie a un pavimento immerso in un tappeto di acqua bassa e a una nebbia realizzata con teli di plastica leggermente opachi, che separavano i visitatori dai pali in pietra.
Il dramma dell’acqua alta, da cui il titolo della mostra odierna, ha cambiato tutto, a riprova che la realtà supera molte volte la nostra immaginazione. L’acqua alta che ha invaso tutta Venezia, è penetrata anche nel Padiglione dove si trovavano ancora le sculture di Viale, ora trasportate a Firenze sane e salve. Un motivo in più per spingere Viale a mantenere l’idea originale in questa esposizione di via della Scala. Ovvero per sottolineare in fondo l’emergenza che stiamo attraversando, quella dell’innalzamento del livello del mare, dei cambiamenti climatici e del progresso incontrollato che ha stravolto equilibri naturali e il paesaggio in ogni parti del mondo. La galleria è disseminata di “bricole” in un percorso dove i lunghi pali talvolta solitari, tal altra “abbracciati” da strette catene, diventano dei moniti. L’allestimento, così risolto, assume un aspetto drammatico e serve a collegare gli inquietanti eventi di questi giorni, conseguenza dei cambiamenti climatici, a quanto vissuto a Firenze nell’autunno del 1966, quando l’Arno superò gli argini, e con tutta la sua furia devastatrice il fiume invase il centro cittadino, raggiungendo l’altezza di molti metri in certi quartieri, come quello di Santa Croce. Ancora oggi, una lapide ricorda la linea dell’acqua in via della Scala e in Piazza Santa Maria Novella, dove furono superati i due metri, deturpando alla base affreschi preziosi e marmi pregiati.
Il tono così drammatico dell’allestimento in via della Scala si accentua nello spazio di via Benedetta, dove Viale ha rovesciato 18 tonnellate di pietrisco e sculture di marmo compresse nella quasi totalità dei 15 metri della galleria occupandone tutta l’altezza, trasposizione dell’azione Root’la realizzata alle Cave di Goia di Colonnata lo scorso lunedì 3 febbraio.
La performance ha avuto inizio nella mattinata e si è sviluppata nella sezione della cava di marmo indicata come “ravaneto”, dal quale vengono storicamente scaricate a valle le pietre non più utilizzabili, scartate durante la lavorazione, che creano uno scivolo di forte pendenza.
Ripetendo un gesto meccanico compiuto ormai da millenni, Viale ha fatto precipitare alcune sculture di marmo precedentemente acquistate, determinando un’azione di carattere concettuale. Le sculture hanno subito così fratture e lesioni che ne hanno sbozzato la forma, mutilando delle parti. Durante la caduta a valle, l’artista ha accompagnato la discesa, aiutandone il rotolamento fino al raggiungimento del fondo valle. I manufatti, copie sfigurate e rese parzialmente informi, sono stati quindi recuperati e ritoccati per essere protagonisti di un monumentale allestimento.
La genesi del progetto nasce dalla passione che Viale nutre nei confronti delle cave, la stessa dei grandi artefici del passato. Alla Storia appartiene l’intenzione di usare il ravaneto come utensile di scultura: da Michelangelo ad Arturo Martini è un’idea comune quella di capitombolare le sculture a valle con lo scopo di purgarle dai difetti, come se ogni colpo, anziché distruggere, riesca a potenziarle. Ora, l’artista non si limita a immaginare, ma agisce.
Dopo anni di assenza dalla frequentazione diretta delle cave estrattive, Viale ha affrontato un percorso di risalita alla fonte e di modanatura del manufatto-opera: la correzione di una scultura passa per la via tormentata e in discesa del ravaneto. Talmente battuta dagli scossoni e dagli urti, l’alterazione accidentale della forma e della superficie non riduce l’importanza del lavoro scultureo, bensì ne aumenta la potenza vitale insita nel materiale.
Ormai priva di ogni qualità figurativa che la legava al modello, la scultura si scopre ora autentica, divenendo metafora dell’esperienza umana: il vissuto, con i suoi accidenti e i suoi incidenti, segna al pari del ravaneto il manufatto in superficie, assolutizzandone l’essenza.
Il titolo, infine, rimanda all’associazione fonetica e semantica tra la parola Root (radice in inglese) e rotolare. La comunione dei termini e delle azioni è pertanto tra la radice dell’azione di Viale, risalente nel tempo, e quella nella quale affondano le sculture idealmente disseppellite.
I detriti di marmo sono stati prelevati dai cosiddetti ravaneti, che sono in realtà gli strapiombi dove vengono gettati gli scarti della estrazione in cava: pietrame e schegge inutilizzabili, materiale prodotto dalla frantumazione della pietra che, precipitando e scivolando a valle, si sbriciola e crea delle vere e proprie cascate di marmo, che viste dalla marina sembrano antichi ghiacciai sopravvissuti al riscaldamento delle temperature.
Tra la massa informe dei detriti, che sembra muoversi come un fiume e trascinare con sé tutto, di tanto in tanto emergono dunque statue mozze, pezzi frantumati di vasi in marmo, arti e teste di pietra lavorati dal tempo e dalla caduta. Le Tre Grazie sono state ridotte a brandelli; un personaggio pittoresco, un moro con turbante, appare riportato allo stadio grezzo di macigno; un aggraziato Apollo è senza braccia, gambe e testa; un molosso è restituito alla natura come sasso di fiume.
Gettate in un ravaneto come scarto, quelle sculture di basso artigianato sono recuperate da Viale e “riscattate” con la nuova presentazione in galleria. Viale adesso le ostenta nel loro nuovo status di “opera a tutto tondo”, dove il carattere informe acquisito cadendo nello strapiombo e rotolando nel pietrisco, viene infine rielaborato da Viale che ha corretto i danni, le amputazioni, i difetti; in altre parole trasformando in “nobili” frammenti contemporanei quelle commerciali informi forme di pietra
La stucchevole bellezza di questi oggetti recuperati sul mercato, ha subito una prima trasformazione per caduta, e una successiva redenzione per correzione e rielaborazione. In entrambi i casi il deus ex machina del primo e secondo evento è comunque l’artista che ha “guidato” fin dall’inizio il risultato, integrando anche quanto di casuale ha generato nella forma la caduta nella cava.
Nello spazio di via Benedetta, l’allestimento ricrea dunque una porzione del ravaneto, una specie di onda lunga di pietrisco accoglie lo spettatore che percorrendo lo spazio riconosce le diverse forme scultoree aggiustate da Viale, con il loro drammatico aspetto informe, in certi casi, di sublime frammento in altri, e anche di abbozzo. La scena è dunque quella di un processo di decadenza e ricostruzione, di caduta e redenzione. Mentre la distesa di pietrisco ricorda un fiume che scorre trascinando via con sé pezzi interi di civiltà. In generale il paesaggio può ricordarci, l’inevitabile tragedia del divenire che tutto riduce in polvere. Nel rinascimento si soleva rappresentare l’esperienza della caducità e della fine, anche quella di imperi e gloriose dinastie, con immagini e simboli significativi, quali colonne spezzate, edifici diruti, sculture rese informi dal lento e inesorabile lavorio del tempo. Il fascino di questi moniti figurativi, dai significati morali riposti, derivava dal contrasto tra la bellezza dei manufatti, la perfezione delle arti e il loro opposto aspetto in disfacimento. Come se un bel volto luminoso di grazia rivelasse al contempo lo spettrale e disgustoso aspetto di un cranio in decomposizione.
Fabio Viale collabora con la Galleria Poggiali sin dal 2014; nell’estate 2017 ha presentato le proprie opere nella personale del Fortino di Forte dei Marmi (Door Release), all’inizio del 2018 ha inaugurato la sede milanese della galleria in Foro Buonaparte con il progetto Lucky Hei, mentre la scorsa estate, oltre a esporre in varie sedi di Pietrasanta (proponendo, tra l’altro, i lavori Kouros e Infinito) è stato protagonista della mostra “In Stein Gemeisselt” al Glypthotek Museum di Monaco di Baviera e dell’istallazione, ad essa connessa, dell’opera Laocoonte in Königslpatz, nella piazza antistante il Museo, per la cui inaugurazione intervenne anche il ministro della cultura tedesco, Marion Kiechle.