Emanuel Carnevali era “puramente italiano, e come tale privo di qualsiasi scrupolo ipocrita per la morale, l’anima e la coscienza”.
Il ritratto che emerge dalle parole del poeta americano Robert McAlmon è tra i più interessanti e misteriosi, e ci offre un’immagine di un uomo abituato a distinguersi dagli schemi e dai valori tradizionali.
Nato a Firenze il 4 dicembre 1897, Carnevali emigrò negli Stati Uniti nel 1914, ad appena 16 anni, in fuga da un’adolescenza difficile e in cerca di un’ispirazione artistica che stava lentamente e inevitabilmente crescendo dentro di lui.
Gli anni in collegio avevano limitato eccessivamente quell’orizzonte che cercava e dentro il quale si sarebbe potuto esprimere al meglio nel Nuovo Mondo, durante un decennio che cambiò profondamente il suo modo di intendere e poi scrivere la poesia a venire. Un uomo determinato, che esercitò mestieri umili solo per amore della sua arte, per potersi affermare come scrittore e raggiungere la stima di autori del calibro di Ezra Pound, che lo accolse con grande rispetto e inserì i suo versi all’interno di antologie e riviste.
Colpito da encefalite letargica nel 1922, Carnevali dovette tornare a curarsi nel paese natale, in un ospedale nei pressi di Bologna, dove morirà nel 1942.
A più di settant’anni dalla morte, i versi del poeta fiorentino permettono ancoradi immergersi in un mondo difficilmente accessibile, di scoprire un artista che ama nascondere dietro ai suoi componimenti una malinconica tensione all’assoluto, il cui simbolismo ricorda i predecessori vissuti in Francia nella seconda metà dell’Ottocento.
Si può definire Emanuel Carnevali un poeta maledetto, la cui onestà si è scontrata con l’ipocrisia della morale comune, per dirla con le parole di McAlmon, che vede nell’arte l’unico strumento di salvezza e di affrancamento dalla realtà: “Certe cose sono come le aquile/vivono in alto/possono benissimo dimenticare la valle”.
La sua vita ci ricorda inoltre le esperienze di viaggio degli italiani a cavallo del secolo, tra fine ‘800 e inizio ‘900, quando a migliaia giungevano a Ellis Island, nella baia di New York, in cerca di una nuova vita.
Partito da Genova sul Caserta il 17 marzo 1914 e arrivato a New York il 5 aprile, visse fino al 1922 tra New York e Chicago, all’inizio senza conoscere una sola parola d’inglese facendo il lavapiatti, il garzone di drogheria, il cameriere, il pulitore di pavimenti, lo spalatore di neve, soffrendo la fame, costretto alla miseria e a privazioni di ogni sorta (McAlmon, in una testimonianza del 1968: “Se era senza un soldo e rubava a un amico libri di valore per venderli e comprarsi da mangiare e da bere, lo faceva senza rimorsi”).
Col tempo imparò la lingua che aveva iniziato a conoscere leggendo le insegne commerciali di New York. Poi se ne impadronì a tal punto che cominciò a scrivere e ad inviare i suoi versi a tutte le riviste del tempo fino a farsi conoscere nell’ambiente letterario, diventando amico di Max Eastman (1883-1969), Ezra Pound, Robert McAlmon (1896-1956) e William Carlos Williams (che lo nomina nella sua Autobiography del 1951). Fu proprio quella sua lingua dell’esilio imparata a orecchio, che fu capace di portare nella poesia americana un soffio selvatico, di cui fu avvertita la novità.
Dimenticato dalla critica e dal pubblico, ha lasciato un piccolo, ma tagliente e forte segno nella letteratura americana del Novecento soprattutto perchè riuscì a partecipare, da straniero, al rinnovamento dell’avanguardia letteraria americana dell’epoca.
Il mito americano e la nostalgia di casa sono tra i temi principali dei suoi lavori, e ci rammentano le fatiche che gli italiani furono in grado di sopportare per raggiungere il sogno a stelle e strisce.
Ecco cosa scrisse Emanuel Carnevali in un testo del 1919: “Chi non si sia liberato della propria, inutile, soma, e non sia partito per una grande avventura non lo potrà capire. Io sono partito per una grande avventura e mi riesce, talvolta, d’impersonare un dio che, una volta, ho visto per un momento”.
Durante la sua vita è stata pubblicata solo la raccolta di racconti Tales of an Hurried Man nel Contact Editions di Robert McAlmon, Paris 1925, di cui è uscita solo nel 2005 una versione italiana col titolo Racconti di un uomo che ha fretta.
Il romanzo autobiografico Il primo dio è stato pubblicato postumo nel 1978.
Le sue lettere a Benedetto Croce e a Giovanni Papini verranno poi pubblicate col titolo Voglio disturbare l’America (1980), a cura di Cacho Millet, il quale ha anche raccolto i Saggi e recensioni e il Diario bazzanese.
La lettura ci offre uno spaccato di un popolo che è sempre stato legato alle proprie origini e tradizioni, e ancora oggi, anche a distanza di generazioni, fa della propria appartenenza a questa cultura un motivo di orgoglio.