(Ph Aleye1996 da Dreamstime.com)

“Dopo Caravaggio. Il Seicento napoletano nelle collezioni di Palazzo Pretorio e della Fondazione De Vito” è il titolo della mostra organizzata dal Comune di Prato, in collaborazione con la Fondazione De Vito, a cura di Rita Iacopino, direttrice scientifica del Museo di Palazzo Pretorio, e Nadia Bastogi, direttrice scientifica della Fondazione De Vito, in programma al Museo di Palazzo Pretorio dal 14 dicembre 2019 fino al 13 aprile 2020.

La mostra nasce dalla considerazione che il Museo di Palazzo Pretorio di Prato conserva uno dei nuclei più importanti in Toscana, secondo solo alle Gallerie fiorentine, di opere di Seicento napoletano: la ricostruzione delle vicende storiche dei pezzi e dell’interesse del collezionismo pratese per la pittura napoletana si configura in questo contesto come uno dei principali apporti critici della esposizione.

Altrettanto determinante è il contributo alla conoscenza della pittura napoletana del Seicento della Fondazione De Vito, che con la sua collezione, formatasi dagli anni settanta del secolo scorso grazie a Giuseppe De Vito (Portici 1924- Firenze 2015) conoscitore, studioso, collezionista di Seicento napoletano e fondatore del periodico “Ricerche sul ‘600 napoletano”, rappresenta, per qualità e interesse storico, una delle più significative collezioni private di pittura napoletana del Seicento.

L’intento di questa mostra è dunque quello di valorizzare le opere del Museo di Palazzo Pretorio e della Fondazione De Vito, le cui raccolte, pur formatesi con modalità e in tempi diversi, documentano l’interesse per il naturalismo della pittura napoletana del Seicento. Storie di collezionismo antico e moderno che permettono di ripercorrere alcune tappe dello sviluppo successivo alla presenza a Napoli del Caravaggio, attraverso le tele di pittori tra i più significativi di questa stagione artistica, da Battistello a Nicola Malinconico.

Il percorso dell’esposizione si articola intorno ai dipinti di Palazzo Pretorio in dialogo con quelli della collezione De Vito, secondo una sequenza cronologica che consente, tuttavia, anche l’indicazione di legami e corrispondenze tematici.

L’incipit è rappresentato dalla famosa tela di Palazzo Pretorio con il Noli me tangere, originale interpretazione dell’incontro fra Cristo e la Maddalena, riconosciuto capolavoro di Battistello Caracciolo, artista che fu in diretto rapporto col Merisi a Napoli e che per primo ne veicolò con una personale interpretazione il potente naturalismo luministico nell’ambiente partenopeo, influenzando i pittori contemporanei e della generazione successiva; egli vanta anche un soggiorno a Firenze nel 1618, testimoniatoci dalle sue tele nelle collezioni medicee: a questo periodo o a quello immediatamente successivo gran parte della critica ascrive il Noli me tangere del museo pratese.

Ad esso fa riscontro il San Giovannino dello stesso Battistello in Collezione De Vito, presentato in Mostra per la prima volta dopo il restauro che ne ha restituito l’originaria cromia; l’artista interpreta un tema caro al Merisi con un intenso naturalismo di carni e di luci, percorso da una vena di accattivante vivacità fanciullesca. Si accosta ai due dipinti la tela della collezione De Vito, in rapporto stilistico e tematico con essi: il San Giovanni Battista con l’agnello di Massimo Stanzione, firmato, databile agli inizi degli anni trenta, tra i più significativi esempi della fase giovanile dell’artista, che interpreta un soggetto caravaggesco con un linguaggio ancora aderente a uno spiccato naturalismo ma già attento ad analoghe elaborazioni di Guido Reni. Verso la metà degli anni trenta è databile anche il Matrimonio mistico di Santa Caterina, di Paolo Finoglio, opera rappresentativa di un pittore di formazione tardo manierista convertitosi al naturalismo e influenzato dal Caracciolo, caratterizzata da una materia pittorica sontuosa e un uso brillante del colore, in cui è implicita un’affinità compositiva con il Noli me tangere di Battistello nel taglio ravvicinato e obliquo delle mezze figure e nell’intenso gioco della luce, che ne accentuano i legami emotivi.

Quattro dipinti si incentrano poi sulla figura di Mattia Preti, l’artista di origini calabresi, documentato a Napoli dal 1653. Egli fu protagonista della scena artistica partenopea di metà secolo, insieme al giovane Luca Giordano, contribuendo in maniera determinante a traghettare il naturalismo verso un linguaggio pienamente barocco di grande espressività pittorica. Preti è presente nelle collezioni di Palazzo Pretorio con la grande tela raffigurante il Ripudio di Agar, nel quale è di nuovo protagonista una figura femminile. Pur se giunta in non ottimali condizioni di conservazione, l’opera è di grande qualità nella vivida macchiatura di luce e ombra, tipica dell’artista, nei rimandi cromatici e nella vivace sceneggiatura dell’episodio biblico, caro all’artista che lo rappresentò in diverse varianti.

Dialoga con essa uno dei quadri più ammirati dell’artista, risalente agli anni dei suoi esordi napoletani, verso il 1656: la grande tela con Scena di carità con tre fanciulli della Collezione De Vito, il cui soggetto non ha confronti nella produzione contemporanea; nel taglio ravvicinato dei tre giovani mendicanti l’artista sembra voler conferire monumentalità e sacralità a una tranche de vie perfettamente calata nell’ambiente napoletano, dando vita a un dipinto di straordinario impatto emotivo e di profonde valenze religiose. Accompagna le due grandi tele il bozzetto di Preti per il San Marco Evangelista affrescato nella cupola di San Biagio a Modena nel 1651-52, che ci mostra l’impiego di questa tecnica nelle fasi ideative di un importante ciclo; essa è un bell’esempio del suo efficace uso dello scorcio trasversale e dello sviluppo dinamico di una singola figura in un vigoroso linguaggio pittorico.

L’evoluzione di Preti verso una pittura di lucida evidenza ma dai toni cromatici più chiari e raddolcita nelle ombre, tipica della sua fase più matura e in linea con gli sviluppi degli ultimi decenni del secolo, è esemplificata da un capo d’opera del periodo in cui l’artista si trasferì a Malta: la Deposizione dalla croce ora in collezione De Vito. Il taglio fortemente ravvicinato che impagina in modo originale la scena, lo scorcio obliquo con cui si rovescia verso lo spazio dello spettatore il corpo di Cristo, ancora sospeso fra l’inchiodatura alla croce e la cura degli astanti, ci mostrano la capacità del linguaggio pienamente barocco di Preti di coinvolgere lo spettatore.

L’opera ci accompagna nella seconda metà del secolo, dominata dal genio di Luca Giordano, multiforme protagonista del barocco napoletano. Dei suoi seguaci fa parte Nicola Malinconico, del quale Palazzo Pretorio conserva una delle maggiori opere, suggestiva anche nel suo legame con le attività di misericordia e di cura: il Buon Samaritano, appartenente alla sua fase tarda. Se alla formazione giordanesca sono da riferire senz’altro la brillante cromia e la morbidezza e libertà della pennellata, nella composizione egli rielabora entrambe le interpretazioni che dello stesso soggetto avevano dato Ribera e il maestro.

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