Nel 1922 il “Chicago Tribune” lanciò un concorso internazionale per la progettazione della sua nuova, prestigiosa, sede. Per il giornale, fondato nel 1847 e destinato a diventare il principale media del Midwest e l’ottavo quotidiano statunitense per diffusione, fu un’abile mossa pubblicitaria: affermarsi come opinion leader diventando un monumento capace di definire i contorni urbani della metropoli che stava sorgendo. Per architetti, progettisti e designer la gara accese un intenso dibattito sulla funzione sociale dei grattacieli. Parteciparono anche nove italiani. Tra loro il barese Saverio Dioguardi, classe 1888. Sarà l’occasione per misurarsi con architetti del calibro di Adolf Loos, lui che nel concorso per il monumento di Alessandro II a Pietroburgo del 1911 aveva ricevuto, unico italiano in gara, il terzo premio per l’Architettura. Figlio di uno scalpellino, era entrato  in contatto con i movimenti architettonici e culturali di respiro internazionale dell’epoca a Roma, dove arrivò nel 1909 per il servizio militare.
L’Italo-Americano ha ricostruito la storia di quel progetto con Francesco Maggiore, ingegnere e presidente della Fondazione Gianfranco Dioguardi.
 
Com’era Chicago negli anni Venti, quando il “Chicago Tribune” indice il concorso a cui partecipa Dioguardi?
Negli anni ’20 la storia di Chicago è segnata da un forte sviluppo urbano, in particolare le aree centrali, interne e limitrofe al Loop (il grande anello sopraelevato destinato al transito della metro), sono ad alta densità e contraddistinte da uno sviluppo sempre più verticale. Chicago è sottoposta ad una crescita violenta, contando in quegli anni quasi 3.000.000 di abitanti. La mobilità transoceanica determina la trasformazione della popolazione da pionieri e agricoltori a uomini d’affari e industriali. 
Sono gli albori del capitalismo, anni caratterizzati da vitalità e ricchezza ma anche da disordine e criminalità. In questo contesto la carta stampata assume un ruolo indispensabile per la società: nascono le inchieste sui bassifondi della metropoli e il giornalismo di denuncia. E in questo scenario il “Chicago Tribune” è la principale testata giornalistica del Midwest degli Stati Uniti.
 
Oggi partecipare a un concorso internazionale è facile: i bandi si trovano su internet. Ma allora? Come Dioguardi è venuto a conoscenza del concorso? 
Quello per il “Chicago Tribune” è tra i concorsi più importanti nella storia dell’architettura. In particolare rappresenta il primo concorso a premi, aperto a tutto il mondo, bandito per un edificio privato. La conoscenza del bando è certamente nota a Dioguardi attraverso le riviste di architettura: il bando viene, infatti, pubblicato in più lingue, sulle maggiori testate specializzate dell’epoca. Delle oltre 2000 domande di ammissione, vengono selezionati 263 progettisti su scala mondiale, tra questi, nove sono italiani. 
 
Quali erano le caratteristiche del progetto presentato e quale invece ha vinto?
Il progetto presentato per la sede del “Chicago Tribune”, si caratterizza per una vocazione “eminentemente monumentale” e per una carica simbolica che punta alla glorificazione della stampa e in particolare del giornale che l’edificio intende rappresentare. Il progetto si compone di tre parti: la parte basamentale, segnata da un grande portale di accesso sormontato da una quadriga guidata da una statua simboleggiante la stampa; il grande arco trionfale; il globo terrestre in cristallo sorretto da quattro gruppi scultori simboleggianti le quattro parti del mondo. 
Una marcata carica celebrativa determina l’impatto visivo. L’idea è quella di rappresentare allegoricamente il valore della stampa attraverso metafore e simboli. 
La commissione, invece, preferirà gli aspetti formali dello stile neo-gotico proposto dalla coppia Hood & Howels, ammirandone la maestosità e la leggerezza tipica di un’architettura gotica.
 
Dioguardi propone un’architettura trionfale, imponente: che significato voleva avere il suo palazzo e che contributo avrebbe potuto dare all’architettura americana dell’epoca?
Le dimensioni grandiose pongono il grattacielo come un vero e proprio faro luminosissimo pensato per produrre sulla città un effetto di grande suggestione. Sembra paradossale vedere, seppure con le dovute distanze, come il progetto di Dioguardi e quello di Adolf Loos collimino in una rivendicazione simbolista. Ma mentre il progetto di Loos incarna una volontà anacronistica e ironica, quello di Dioguardi riproduce la glorificazione della stampa in una celebrativa monumentalità. Allo stesso concorso è la matrice di scuola europea a inaugurare una riflessione sul grattacielo attraverso l’uso di forme e linguaggi nuovi fondati nella scala del design ma in grado di stabilire un rapporto con la dimensione urbana. 
 
Dioguardi si confronta con la progettazione di un grattacielo che dell’America sono un po’ il simbolo ma che in Italia non era poi una costruzione così diffusa e comune, soprattutto a quel tempo.
In questo, infatti, Dioguardi dà prova di una grande capacità immaginifica confrontandosi con l’idea del grattacielo statunitense, in particolare confrontandosi con le tendenze più storicistiche.
 
La sua partecipazione racconta, indipendentemente dal risultato, di una personalità ambiziosa: partendo da una piccola e sconosciuta Bari anni Venti, “osa” confrontarsi con il mondo e con l’America che allora era la terra promessa di milioni di emigranti.
Saverio Dioguardi si trova in un certo senso ad appartenere e a ereditare lo spirito più rappresentativo della cultura ottocentesca e di quella più spregiudicata che caratterizza gli inizi del Novecento. Tuttavia, in questo riferimento anagrafico non possono tralasciarsi i nomi di E. Basile, R. D’Oronco e G. Sommaruga che, direttamente e indirettamente, forniscono le basi morfologiche per una suggestiva visione della tradizione eclettica. Allo stesso modo l’opera di G. Sacconi, riassunta nel Vittoriano, che viene inaugurata nel 1911, riveste un ruolo importante per la comprensione della sua vocazione rivolta ad una profusa monumentalità, ad una candida neo-archeologia e a una dimensione simbolica e scultorea.
 
Quale era il suo concetto di architettura e quali opere ha lasciato a casa sua?
Nel suo lavoro si evidenzia il rapporto con la storia, con gli avvenimenti sociali, culturali e politici. Tutto questo consente di riconoscere la figura dell’architetto-imprenditore sia nella sua fragilità sia nella sua autorevolezza. Se da un lato, infatti, si scopre una maniera di ragionare sui temi dell’architettura in forma sommessa e intimistica, dall’altro si sente la volontà di far prevalere la propria competenza con un linguaggio più ambizioso e pieno di personalità. Questa dualità interna all’architetto rappresenta le tensioni più contraddittorie ma anche più vere in cui il progetto architettonico nasce.
Tra le opere più emblematiche e rappresentative realizzate da Dioguardi, il caso del Circolo Canottieri Barion (1930-33) dimostra una possibile eresia all’interno di un establishment spesso inaridito dalle semplicistiche caratterizzazioni nazionalistiche. Il progetto, infatti, segna le premesse a una poetica della forma in grado di comprendere e risolvere la dimensione spaziale dell’edifico in una articolazione complessa fatta di frammenti architettonici e stilistici che si sovrappongono al linguaggio metaforico dei riferimenti navali. 
Il Barion sembra, così, aprirsi a una possibilità espressiva dove l’astratta ideologia cede il posto a un vocabolario più plastico fatto di volumi semplici ma concatenati da elementi curvilinei dove la vibrazione della luce si pone in un rapporto di continuità con il nuovo e il moderno. 
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