Chiacchierata effervescente per L’Italo-Americano con il fotografo toscano Aurelio Amendola che, con lo spirito ironico e scanzonato tipico della sua terra, ci spiega l’arte a suo modo.
Domanda secca: fotografo d’arte, si nasce o ci si diventa?
Ci si diventa! Figurarsi se ai miei tempi si pensava alle fotografie d’arte! Adesso il discorso è diverso. Oggigiorno esistono scuole che ti preparano, giustamente, ma quando ho iniziato io eravamo tutti degli autodidatti. Sto parlando degli anni Sessanta. Non sono passati secoli ma le cose sono cambiate tantissimo, in questo settore. Per me, l’approccio alla fotografia d’arte, fu un percorso naturale, non studiato da qualche parte.
Come iniziò ad avvicinarsi a questo tipo di fotografie?
All’inizio, come tanti ai miei tempi, mi chiamavano per documentare eventi, matrimoni, comunioni… Avevo una attività, un negozio ed una famiglia da mantenere; figuriamoci se potevo pensare, all’epoca, a questa opportunità! Poi, il caso volle che il mio primo libro fotografico, su Giovanni Pisano, nel 1968, avesse un buon successo. Da lì cominciai a dedicarmi alle foto artistiche, con più impegno. Iniziai a frequentare la fonderia “Michelucci” di Pistoia. Qui c’era uno scultore eccezionale: Iorio Vivarelli. Aveva molta fiducia in me, mi chiamava per fotografare le sue opere e lui mentre le produceva e le foto… diciamo che mi riuscivano bene.
Approccio, semplice, diretto.
Esattamente. Fu molto naturale, quasi pre-scritto. La parte più difficile è stata lasciare la via vecchia per la nuova, come dice il proverbio, perché avevo una famiglia da mantenere, con un lavoro di fotografo “standard” ma perlomeno sicuro e stabile. Buttarmi in una nuova avventura fu un azzardo ma andò bene.
Bellissime le foto esposte nella mostra “Michelangelo” a Palazzo Cucchiari, a Carrara. Sono commoventi, è molto difficile non emozionarsi. E’ naturale fotografare una scultura e provocare tali sensazioni in chi la vede?
Fotografare la scultura, per me, è una specie di dono, una cosa che nessuno mi ha insegnato.
Oltre ad una certa sensibilità, una certa empatia con l’opera e con l’artista, perché vorrei dire che ogni artista ha caratteristiche sue proprie e dalla fotografia, queste, debbono venire esaltate e non nascoste, mi occorrono le “mie” luci, per ottenere l’effetto desiderato.
La mostra a Palazzo Cucchiari è una delle mostre, per me, più belle. Le fotografie esposte sono il frutto di un lavoro certosino, a cui ho messo e rimesso mano, più volte. Volevo essere soddisfatto del risultato, e così, alla fine, è stato. Certo, c’è stato anche un grande lavoro di “tecnica”. La parte meno artistica e più artigianale, è quella che si svolge in camera oscura. Oggi, si definiscono tutti artisti, tutti fotografi, poi, magari, storcono il naso se c’è da fare il lavoro “sporco”, quello più duro, che si svolge in camera oscura. Io, invece, faccio tutto da me, orgogliosamente: me le sviluppo e me le stampo, le mie fotografie. Sono un artigiano al 100%.
Ha fotografato tante sculture. C’è una “astuzia” particolare, per ogni artista?
Da ogni opera voglio tirar fuori lo spirito di ciascun artista. Di Michelangelo, ad esempio, ho voluto evidenziare la sua viva forza e la sua grande sensualità. Di Canova devo tirar fuori tutta la sua dolcezza, la sua eleganza. Il Canova “l’è un po’ ruffiano” (cioè furbo, ndr), detta in toscano. Ora Canova s’arrabbierà per questa definizione “ma tanto l’è morto e non può più protestare”.
La scultura, essendo tridimensionale, per me è viva. Fotografare un quadro, che è statico, sarebbe facile: basta piazzare le luci giuste ed il lavoro, vien da sé. Una scultura, invece, la devi fotografare in tutta la sua potenza espressiva, devi saper cogliere il suo messaggio.
Analogamente, fotografare una persona in carne ed ossa, e penso agli artisti ed alle icone che ho fotografato in tutti questi anni: Andy Warhol, Burri, Marino Marini, De Chirico, eccetera, con cui ho stretto rapporti di intensa amicizia, mi ha sempre dato una gioia immensa. Le nostre sessioni di foto, sono state sempre accompagnate da piacevoli chiacchierate, battute, osservazioni. Ho ricordi splendidi di ciascuno.
Quale è stata l’opera più difficile da fotografare o quella che ha dato più filo da torcere?
Me ne vengono in mente tre. L’impresa più difficile, in assoluto è stata fotografare San Pietro. Immagini l’afflusso di persone, al giorno? Sono circa 10.000! Io sono riuscito a fare al massimo quattro o cinque foto al giorno, in momenti dove non c’era assolutamente nessuno. Ci ho messo davvero tempo e fatica, ma il risultato, mi ha ripagato di tutte le difficoltà enormi che ho affrontato.
Anche il Duomo di Milano mi ha dato filo da torcere e lo stesso Michelangelo, a dire il vero.
Negli anni ‘90 feci delle foto ad alcune opere di Michelangelo, giudicate bellissime. Vennero raccolte in un libro fotografico, ricevetti un sacco di complimenti ma quello non era il “mio” Michelangelo, non era il risultato che volevo. Non mi sentivo appagato, mi mancava qualcosa.
Le fotografie che ho esposto a Palazzo Cucchiari, invece, rappresentano il raggiungimento di quello a cui aspiravo, sono davvero molto contento e soddisfatto delle foto realizzate, della location che ho chiesto e che è perfetta, della gentilezza e della capacità organizzativa di chi l’ha permessa e pianificata.
Aurelio, un’ultima domanda. Qual è, se c’è, l’opera che ancora “manca”? Quella che vorrebbe assolutamente fotografare o che sta pensando di fotografare?
Beh, prima di “tirà il calzino”, ossia prima di passare all’altro mondo, mi piacerebbe tanto fotografare Stonehenge. Ci penso ogni tanto e spero di riuscire a mettere in pratica questo pensiero.