Alle ore 6 del 2 luglio 1940, a pochi giorni dall’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno), l’UBoat 47 colpì l’Arandora Star: un evento che, con 446 vittime italiane, resta tra i più drammatici nella storia dell’emigrazione.
Avevano una sola “colpa” i cittadini strappati alle famiglie, alle case, alle attività costruite in anni di duro lavoro, quella di aver cercato in suolo britannico la speranza, un futuro per loro e per i loro figli. Emigrati che per il governo altro non erano che ne-mici, spie, persone private all’improvviso, in seguito all’entrata in guerra dell’Italia, dei loro diritti, anche quelli sanciti dalla Convenzione di Ginevra.
La nave, salpata da Liverpool il 1 luglio con 1.564 deportati, 712 erano italiani, gli altri di nazionalità austriaca e tedesca, era destinata ad un campo di prigionia canadese. Ben 86 erano i prigionieri politici, gli altri, uomini tra i 16 ed i 75 anni, furono rubati alle loro famiglie, ignari del proprio destino, caricati in sovrannumero sull’Arandora Star, stipati nelle cabine, in ogni angolo della nave incapace di contenere quel numero eccessivo di passeggeri. Per-sino il salone un tempo utilizzato per le serate danzanti, quando l’Arandora Star era un’elegante nave da crociera, venne trasformato in un dormitorio.
Il viaggio si interruppe, per sempre, al largo della costa nord-ovest dell’Irlanda.
Appena 35 minuti, questo il lasso di tempo impiegato dall’Arandora Star per affondare mentre 800 cittadini perdevano la vita. Numerose, troppe le “coincidenze” sfavorevoli che provocarono il gran numero di vittime: dalla mancanza di un qualsiasi segno di riconoscimento in grado di far capire al sommergibile tedesco che la nave trasportava deportati, compreso il simbolo della Croce Rossa. Come affermò l’equipaggio dell’Uboot, l’Arandora Star era facilmente scambiabile con un mercantile militare, anche per il suo colore grigio.
Nessuna istruzione sulle procedure di emergenza. Solo 14, infine, le scialuppe… in pratica, la cronaca di una morte annunciata.
Fu un prigioniero, il comandante della nave tedesca SS Adolph Woermann, Otto Burfeind, a guidare le operazioni di evacuazione, mentre l’incrociatore canadese St. Laurent, grazie all’SOS, riuscì a portare in salvo 586 passeggeri.
Ma anche per i sopravvissuti, nessuna pietà: il 10 luglio vennero di nuovo imbarcati su una nave con destinazione Australia. E forse la tragedia, il dolore più grande, fu l’indifferenza con cui la stampa italiana diede la notizia: non una parola sulle vittime, ma solo la soddisfazione di una “vittoria” nei confronti del nemico, mentre per i familiari iniziava un lungo periodo di attesa tra speranze e sofferenza.
Numerose le vittime dell’Emilia Romagna, della Toscana e del Lazio, ma c’erano anche lombardi, piemontese, campani, molisani, sardi, abruzzesi, siciliani…al pari di altre tragedie dell’emigrazione che toccavano tutte le regioni, in questo caso, persino la Val d’Aosta.
Tra i più giovani, Luigi Gonzaga, di appena 16 anni, nato a Bedonia, in provincia di Parma. E proprio la provincia di Parma fu la più colpita: erano di Bardi 48 deportati, in prevalenza emigrati nel Galles dove vivevano da anni, molti avevano figli nell’e-sercito britannico.
A Bardi, il Comitato Pro Vittime Arandora Star, ricorda ogni anno le vittime del naufragio. Numerose anche le altre cerimonie organizzate nel corso degli anni per mantenere viva la memoria delle nostre 446 vittime.
Il 2 luglio del 2008, una delegazione delle Regioni Emilia-Romagna, Lazio, Toscana, e le province di Parma, Piacenza e Lucca, si è recata a Liverpool per una commemorazione che ha visto, per la prima volta, la partecipazione delle autorità britanniche.
“A ricordo dei laboriosi emigrati pontremolesi in Gran Bretagna sui quali l’entrata in guerra dell’Italia gettò l’ombra ingiusta del sospetto e che, destinati dal governo inglese alla prigionia, perirono nel tragico affondamento dell’Arandora Star il 2 luglio 1940”. Questa la frase dedicata dall’Istituto Storico della Resi-stenza Apuana e dall’Amministrazione Comunale di Pontremoli ai 17 pontremolesi emigrati in Inghilterra, a 70 anni dalla tragedia.
Il 16 maggio 2011 è stata inaugurata a Glasgow, in Scozia, l’I-talian Cloister Garden, un monumento nei pressi della St. Andrew’s Cathedral che ricorda le vittime dell’Arandora Star. Erano presenti, oltre alle autorità, l’ultimo superstite, Rando Bertoia, di Montereale Valcellina.
Dopo anni di oblio, si torna a conoscere la tragedia dell’Arandora Star, grazie ai parenti delle vittime e ad alcuni autori, come Gian Antonio Stella, Maria Se-rena Balestracci (“Arandora Star. Dall’oblio alla memoria” – 2008, Mup editore-Parma), e Alfio Bernabei che non sono l’ha ricordata nel libro “Esuli ed emigranti italiani nel Regno Unito – 1920 -1940” (Mursia editore), ma ne ha fatto anche uno spettacolo teatrale dal titolo “Il sarto in fondo al mare” (vincitore del Premio di scrittura drammaturgica “Diego Fabbri 2006).
L’opera è ispirata alla storia di una delle vittime, Decio Anzani, un sarto romagnolo che viveva a Londra. Era segretario della Lega Italiana per i Diritti dell’uomo, a conferma che gli internati erano lontani dal condividere le scelte politiche dell’Italia del tempo. Anzi, nella maggior parte dei casi, erano antifascisti ed ebrei italiani fuggiti in Gran Bretagna all’indomani delle leggi razziali del 1938, trasformati in vittime solo per il fatto di essere emigrati italiani.
Per anni questa pagina della storia è stata dimenticata, abbandonata. Poi, piano piano, è riemersa grazie anche ai parenti, primi veri custodi di memoria.
Oggi, accanto ad ogni nome dell’infinita lista di vittime, è possibile idealmente affiancare il racconto di una vita e restituire la dignità di persone con una forza, un coraggio speciali, che li ha portati a lasciare l’Italia per af-frontare l’ignoto in un altro Paese.
Tante le storie ricostruite e diffuse. Per tutte, come tempo fa già si è letto su La Voce di Caracas, riportiamo quella raccontata dal nipote di Leone Belotti, che, a conferma dell’essere custodi di memoria, porta lo stesso nome del nonno.
Subito dopo la dichiarazione di guerra, l’11 giugno 1940, due ufficiali prelevano Leone Belotti nella sua abitazione, in un sobborgo residenziale di Londra. Belotti è un uomo di successo, direttore della più importante in-dustria di bottoni. Ha una bella moglie e un figlio di un anno e mezzo. Dopo averne accertato l’identità, viene arrestato.
Nessuna spiegazione alla moglie, nessun cenno di quanto tempo starà via e del perché di quell’arresto. Leone rassicura la moglie, “ti scriverò presto”, nella speranza di poter tornare dopo quattro giorni, giusto in tempo per festeggiare il loro quinto anniversario di matrimonio. Leone sale sull’auto. È l’ultima immagine: la moglie non lo rivedrà più. Era per lei che Leone, bergamasco, aveva deciso nel 1934 di andare in Inghilterra per migliorare la sua situazione economica ed essere degno di quell’amore.
Leone viene portato in un “Aliens Camp” a Lingfield.
Nel periodo di prigionia, scrive alla moglie quattro lettere, le prime due in inglese, le altre in italiano. Le ultime parole per Lina e Roberto, sono del 23 giugno: “Io sto bene di salute e di morale e tutti si spera che questa situazione finisca presto e che la povera e travagliata Europa ritrovi la pace”. Poi, la notizia dell’affondamento dell’Arandora Star, ed i dubbi, infiniti, sulla sorte di Leone Belotti.
Il ritrovamento di Pietro Pini, 30 anni, dato per disperso, riaccende le speranze dei familiari. Speranze che per Lina Belotti, si spengono, definitivamente, il 27 agosto 1940 all’arrivo della comunicazione del Segretario di Stato: “L. Belotti must be presumed missing and probably lost”. Anche l’industria di bottoni per cui lavorava Belotti, in un articolo, rende onore alla memoria del suo direttore, un “key man”, come altri italiani, fino al 10 giugno. A Lina, dopo alcune traversie, nel 1946 non resta che tornare in Italia con il piccolo Roberto. L’atto di morte di Leone Belotti arriverà il 12 gennaio del 1954.