Sometimes, we take everything for granted, because we don’t ask ourselves the simplest questions.
This year’s Olympics have been troubled: first they were postponed, then heavily contested in their organizing country, because of the many difficulties and fears brought by the pandemic. But they have also been spectacular. We are not only talking about results, records or medals. What makes them really special are the personal stories of competing athletes, people who made them great with their achievements, struggles and tears. But also with their gestures, that marked unexpected moments and victories, with years and years of training that led, in a matter of seconds, to bitter disappointment or immense joy.
We supported and cheered them on from the comfort of our living room, we followed them with curiosity — or perhaps, absent-mindedly – even in those disciplines we barely know. But, unless we are former athletes or related to someone who made of sports their life, we can only imagine all that lies behind winning or losing a medal.
All our grande!, bravissimi!, forza”, dai! sììì, uttered throughout the games, are just the last act of a tiring, wearisome and challenging path, where dreams, ambitions and hopes often clashed with sacrifices, sorrow, failure, depression and external pressure. Every athlete at the inauguration ceremony in Tokyo definitely went through a complex series of emotions and hardships most of us cannot even fathom. This is to say that appearances can be deceiving, because they never quite tell everything. On the podium, we see the tip of the iceberg only, just like we see only a handful of minutes or seconds on the track, brief instants that can change an entire life: from there, it will be either huge regrets or endless success, a place in the annals of sports, or oblivion, regardless of all efforts made.
Similarly, there are plenty of moments in our lives that can tell a lot about who we are, even if we don’t realize it. Our date of birth, for instance, doesn’t only tell the world when we were born, but could also about an infinite series of events in history, society, politics, economics, the environment, technology, science, that took place then.
When looking back, they’ll be part of our life’s history, because they are bound to affect, in a way or another, how we grew up or part of our existence. Being born in the second post-war period is different from being a millennial. Our relationship with phones is telling: who never used a home phone can’t understand the level of freedom we had before being traceable 24/7, but certainly knows what a video-call across the ocean can do, obliterate distances and lighten the emotional weight of separation and homesickness. One wonders how many relationships would still be alive, if free long-distance calls had been available in the past as easily as they are today, if the opportunity to travel and visit parents and grandparents across the ocean to make them part of our “American life” had been so widespread. Perhaps, we would have never forgotten our mother tongue, because we’d have used it regularly with our friends and families back in Italy.
The same reasoning goes for our family and community traits. Again, if we look at our date of birth, we can find plenty of elements that make us who we are. Being born in a specific context, social group, community, geographical location certainly left a mark in us and even today, decades later, we understand who we are thanks to all that. Every psychologist can confirm that childhood is when the future is shaped. The same can be said of our socio-familiar context, which can either open up avenues of development unavailable to others, or preclude them just as easily.
Here, we must go back to our initial considerations, to all those things we take for granted, because we feel they’ve always been there. For instance, have you ever wondered what “Italia” means? Have you ever found fulfilling answers to your historical, genealogical and anthropological questions? And have you ever thought to find a much more personal answer, that is, to understand what “Italia” means to you, beyond the country’s iconography, beyond being Italian, beyond eating well or speaking la Dolce Lingua?
Alle volte diamo tutto per scontato, nel senso che non ci poniamo nemmeno le domande più semplici.
Queste tormentate Olimpiadi che sono state rinviate di un anno e contestate pesantemente nel Paese che le ospita a causa di tutte le difficoltà organizzative legate alla pandemia, sono state spettacolari in molte discipline. Non è solo questione di risultati, record o medaglieri. A renderle speciali sono state le tante storie personali degli atleti che le hanno vissute, che le hanno fatte grandi con le loro imprese, le sofferenze in campo, le lacrime in pista, i gesti che hanno suggellato momenti inediti, i sorpassi impensati e i trionfi insperati, gli anni di sacrifici e i pesanti allenamenti alle spalle finiti, nel giro di pochi secondi, in amare delusioni o in attimi di esultanza sfrenata.
Noi che dal nostro comodo e tranquillo salotto di casa li abbiamo incoraggiati e sostenuti, osservati incuriositi o guardati distrattamente in discipline di cui non conosciamo neanche le regole basilari, a meno di essere ex atleti o parenti di chi ha fatto dello sport ben più di una passione o un’abilità fisica ma la ragione di vita, riusciamo solo lontanamente ad immaginare tutto quel che c’è dietro la medaglia vinta o persa.
I nostri “Grande!”, “Bravissimi!”, “Forza”, “Dai”, “Sììì” che hanno punteggiato qualificazioni e finali sono stati solo l’ultimo atto di un percorso faticoso, impegnativo e spesso logorante dove i sogni, le ambizioni e i desideri si sono scontrati con rinunce, dolori, sconfitte, depressioni e pressioni esterne. Chi ha sfilato nello stadio di Tokyo per la cerimonia inaugurale ha sicuramente attraversato una serie complessa di emozioni e fatiche che molti di noi nemmeno immagina. Questo per dire che le apparenze spesso ingannano nel senso che non raccontano tutto quello che sta dietro. Sul podio vediamo solo la punta dell’iceberg, come in pista vediamo solo pochi minuti o addirittura secondi e centesimi in cui ci si gioca tutta un’esistenza, che da lì in poi sarà segnata da grandi rimpianti o intramontabili soddisfazioni, finirà negli annali dello sport o verrà dimenticata a stretto giro, indipendentemente dagli sforzi che ci sono stati per arrivare su quella pedana, in quella vasca o su quella pista.
Allo stesso modo, nella nostra storia personale, ci sono tanti momenti che potrebbero raccontare molto di noi, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Una data di nascita per esempio, non dice solo che in quel giorno abbiamo aperto gli occhi ma potrebbe raccontare una serie infinita di eventi avvenuti contestualmente: storici, sociali, politici, economici, ambientali, tecnologici, scientifici. A posteriori, racconteranno un pezzo della nostra vita perché sicuramente avranno almeno parzialmente determinato il nostro contesto di crescita o condizionato un pezzo della nostra esistenza. Essere nati nel dopoguerra ha lasciato sicuramente un’impronta differente rispetto a chi è oggi chiamato millennial. Il nostro rapporto con il telefono già la dice lunga: chi non ha conosciuto gli apparecchi a filo non sa di quanta libertà si godeva prima della rintracciabilità h24 ma sa bene cosa può fare una videochiamata dall’altra parte del mondo: annullare in un attimo distanze pazzesche e alleviare la fatica emotiva della separazione, della lontananza, della nostalgia. Chissà quanti legami familiari non si sarebbero interrotti se ci fosse stata la possibilità che abbiamo oggi di chiamare gratuitamente casa anche se siamo dall’altra parte del mondo, di rivedere i genitori lontani o di far visita ai nonni oltreoceano e di renderli in qualche modo partecipi della nostra vita americana. Molti non avrebbero nemmeno dimenticato la lingua originaria potendola allenare con i parenti o gli amici lasciati in paese.
Il discorso è valido anche per i nostri tratti familiari e comunitari. Nella stessa data di nascita, possiamo trovare moltissimi elementi che ci caratterizzano. Essere nati in un particolare contesto, gruppo sociale, comunità locale, paesaggio geografico ci ha sicuramente segnati e anche oggi, a distanza di decenni, ciascuno di noi può capire molte cose di sé, sa che lì c’è una traccia profonda di come è oggi. Ogni psicologo può confermare che l’infanzia è un marchio che forma gran parte del nostro essere futuro. Per non parlare dei contesti socio-familiari di provenienza che possono spalancarci agevolmente strade difficilmente accessibili ad altri o incanalarci, se siamo più sfortunati, verso sentieri più tortuosi.
Qui torniamo alla considerazione di partenza. A quelle cose che diamo più scontate perché le abbiamo sempre sentite e date per assodate. Vi siete ad esempio mai chiesti cosa significa Italia? Avete mai trovato rispose soddisfacenti alle vostre curiosità storiche, antropologiche, genealogiche? E avete mai pensato di dare una risposta anche molto più personale alla domanda, cioè ragionato su cosa per voi significa Italia al di là dell’iconografia classica del Belpaese o dell’essere italiani, al di là di mangiare spaghetti o parlare la Dolce Lingua?
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