L’Abruzzo è una terra ricca di sorgenti di acque prodigiose e ogni paese d’Abruzzo può vantare ‘acque miracolose ’ utilizzate fin dall’antichità. Acque ricche di notevole effetto terapeutico, acque che posseggono una alta concentrazione di minerali come le ferruginose, le bicarbonate, le solfate e le sulfuree.
Nei primi anni del 1800 appassionati ricercatori analizzarono e catalogarono le migliori acque abruzzesi, rendendole note tramite pubblicazioni scientifiche. Vi sono acque mediominerali, dove la concentrazione di sali è equilibrata e le oligominerali, che difettano di sali, particolarmente indicate in alcune patologie.
Acqua bevono le mamme senza latte che pregano Sant’Agnese, Santa Scolastica e Sant’Agata e con essa si aspergono in cerca di fertilità le donne che, ancor oggi, visitano chiese campestri e tradizionali fontane dedicate alla Sante.
Gli agricoltori delle valli che visitavano l’Eremo di San Bartolomeo di Legio a Roccamorice, portavano giù dalla montagna un po’ dell’acqua che sgorga dalla sorgente vicina alla dimora del santo: serviva ad aspergere le viti e scongiurarne la malattia più pericolosa, la peronospera.
Lungo la strada che collega Raiano a Vittorito, in provincia de L’Aquila, una sorgente di acqua sulfurea che faceva girare la ruota di un mulino, era utilizzata per i benefici effetti sui tessuti cutanei e come ottimo sbiancante per le fibre di canapa e di lino, lasciate a macerare, poi battute con rudimentali, ma efficaci strumenti e ridotte ad una arruffata massa filamentosa da torcere in un lungo filo da tessere nei telai di legno casalinghi.
Il benessere e la salute dell’uomo sono l’obiettivo secolare delle buone acque abruzzesi e soprattutto in tre famose località: Caramanico, Popoli e Canistro che sono sedi di terme ben organizzate e all’avanguardia in campo terapeutico.
Anche a Santa Eufemia, la cui patrona è la santa omonima, si trova una fontana. Intorno ad essa si è creata una sorta di leggenda trasformatasi di seguito in un vero e proprio culto agreste che porta in sè sacro e profano. All’acqua di questa fontana si attribuivano proprietà benefiche ed è per questo che, in passato, fu meta di donne gravide o di donne divenute madri da poco. Si chiedeva una protezione per la salute e la crescita dei bambini nonché un’abbondanza di latte per far sì che questa crescita recasse benefici ai piccoli.
Così tutte le future madri, non solo di S. Eufemia, ma di tutta la valle dell’Orte, si recavano all’agognata fonte percorrendo un iter prestabilito e rispettando una prassi ben precisa, che consisteva nel portare con sè un fiasco di vino e un bicchiere da offrire a tutte le donne che si incontravano durante il tragitto, le quali bevendo, auguravano abbondanza di latte alle partorienti. Al ritorno la prassi cambiava e la futura madre doveva accarezzare il primo bambino che incontrava con la sua mamma; facendo ciò lei augurava tanta salute alla sua creatura e tanto latte quanto ne aveva la donna incontrata.
L’acqua, elemento indispensabile per la vita, rappresentava così, per le donne di S. Eufemia, un bene prezioso tanto da creare un vero e proprio culto di propiziazione. Un culto che si inserisce all’interno dei cosiddetti “Riti di Passaggio” relativi all’intero ciclo della vita umana.
In questo rito si ritrovano caratteristiche peculiari come l’aggregazione, l’unione, i legami in quanto le donne non si recavano mai sole alla fontana, ma sempre in gruppo. Oggi la fontana di S. Eufemia è lì a testimonianza di una passato e di una tradizione mai dimenticati; da essa sgorga ancora acqua.
Nella Valle di Palombaro, tra le più straordinarie della Majella, si aprono nelle pareti rocciose molteplici grotte, molte delle quali sono state (altre lo sono ancora) luoghi di culto.
Grotta Sant’Angelo è la più nota: si tratta di un vastissimo riparo sotto roccia, all’interno del quale, in antico, si praticava il culto della dea Bona, nonostante Grotta Sant’Angelo sia in un’area ricca di avvenimenti è carente di storia, tanto è vero non si conoscono narrazioni di santi o eremiti che vi abbiano vissuto, né si è a conoscenza di accadimenti riconducibili alla grotta.
In Abruzzo, le grotte dedicate al culto di San Michele Arcangelo, o Sant’Angelo, sono moltissime, e la divulgazione di tale culto fu favorita dal carattere di continuità con i precedenti riti pagani che, appunto, avevano luogo in quelle grotte: riti di fecondità, venerazione delle rocce e delle acque. Con l’avvento del Cristianesimo, di fatto, ad Ercole (protettore della transumanza) era subentrato San Michele Arcangelo, raffigurato come giovane guerriero debellatore delle forze maligne rappresentate da un drago, pertanto un semidio come Ercole.
La chiesetta rupestre fu costruita sui resti del santuario dedicato a Bona, a cui le donne in età fertile si rivolgevano per supplicarne i favori. Esse arrivavano in corteo da tutto il territorio e si aspergevano i seni con le acque purificatrici, che sgorgavano da una sorgente all’interno della grotta, che erano raccolte nelle vasche scavate nella roccia all’ingresso della caverna.
Nel vasto antro vi sono tuttora delle vasche scavate nella pietra in cui avveniva la raccolta delle acque: due di esse sono situate sul lato destro dell’ingresso, l’una a forma semicircolare, l’altra rettangolare, comunicanti tramite un buco. Nella grotta vi sono tre vasche: una incavata in un basamento roccioso, un’altra ai piedi di un roccione inclinato e la terza, di forma rettangolare, ricavata in una sporgenza rocciosa e serviva per la raccolta dell’acqua piovana.
Al centro della grotta emerge una roccia dalla forma particolare, probabilmente impiegata come ara per funzioni preistoriche e pagane, su cui (tra la fine del sec. XI e l’inizio del sec. XII) fu costruita con conci di pietra squadrata della Majella, l’abside romanica per le funzioni cristiane. Cosa resta della struttura romanica altomedievale? Solamente due muri, larghi tra i 40 e gli 80 cm. circa, collegati da un’abside semicircolare.
Archetti pensili, che richiamano gli stessi nell’abside di San Liberatore a Maiella (Serramonacesca), decorano la parte alta dell’abside, in cui si riscontra una cornice decorata con cordonature a tortiglioni che si ripete nella cornice di una finestrella strombata. La modesta struttura è completamente disadorna, ma le testimonianze rammentano che fino a non molto tempo fa vi erano un altarino e nicchie con statuine, evidentemente trafugate.
L’acqua è la protagonista di uno dei più struggenti romanzi della letteratura contemporanea italiana: Fontamara, scritto tra il 1927 e il 1930 da Ignazio Silone, abruzzese originario di Pescina dei Marsi. Fontamara è la storia di un tormento, il tormento della povertà e dell’ignoranza, del sopruso e dell’inganno, che vede nell’acqua il fattore scatenante della lotta di popolo contro il potere costituito.
È la storia, ambientata nei primi anni dell’avvento della dittatura fascista, di un intero paese che si arrabatta e combatte (una lotta senza esclusione di colpi e che coinvolge parimenti uomini e donne), senza successo, contro il sopruso di un ricco signorotto della zona, denominato l’Impresario, il quale, in combutta con le autorità comunali e statali, arroga a sé il diritto di utilizzare come, quando e quanto più gli conviene, l’acqua, fonte di vita.
La storia narra la disperazione degli abitanti poverissimi di un piccolo villaggio, per la deviazione di un corso d’acqua che bagnava le loro terre poco fertili. Se l’acqua serviva a raccogliere frutti effimeri, ma preziosissimi, di una coltivazione compiuta a prezzo di enormi sforzi umani, la sua privazione significava morte certa, incapacità di sostenersi con l’unico prodotto possibile, cioè quello dato dalla terra brulla e parca di soddisfazioni.