Cinema has a great merit, it’s a collective work. Within its frame, it keeps many, incredible forms of art, it makes them shine by turning off all the lights around. It helps those watching a movie concentrate on the plot, on the characters on screen, on the structure that could bring together in a single edit countless sensory, emotional, visual and sound inputs. Cinema focuses the energy of the audience on a “sequence plane,” that has many points of view, many experiences, many languages and many interpretations. When a movie wins a prize, in truth, it’s a complex, plural project to be awarded. And when it’s released to theatres, it’s the “short circuit” it creates to make the difference, to regenerate it continuously, adapting it to personal tastes, epochs, and collective sensibility.
In movies, you award an author, but there’s a whole team behind. The vision of one, single person, as enlightened and enlightening as it can be for all other workers, cannot create a film on its own. This is why every time someone makes it, and stands above the rest with his or her work, we should really list all the people who helped reach that point, who supported, promoted or inspired the movie. For those listening, acknowledgements, just like credits, may seem boring, formal, conventional. In truth, they show– or should show—all the people behind the scenes, teamwork, a merit that needs to be shared.
And then, every work has a collective importance. Artists are always interpreters of their times. They can be visionaries, surrealists, anti-conformists and anti-system, but they are always the product of a specific context. They are one of the many voices of a historical period, a society, of the feelings of a brief moment in time. Just like the language we speak is a concentrate of stimuli, of cultural filters that, positively and negatively, reflect our prejudices and openness, our stereotypes and enthusiasm, so artists are means of communication. They are a sponge that absorbs, elaborates and produces a mix of life and creativity, of perceived and thought-over, of inherited and renewed. In this sense, all artists are the product of their time and their life context. Of course, they’re innovative, too: talent rises the bar and brings it where others can’t reach: it certainly creates capital gain.
But it also makes us understand why, often, we recognize ourselves in a name. Why we consider collective patrimony the achievements of a compatriot, or of an artist we feel close to our sensibility, who embodies our values or the way we live, with our fears and dark corners, but also with our hopes, dreams and successes, fantasies and fairy tales.
This is what our minister of Culture Dario Franceschini meant when he said: “Matteo Garrone’s Pinocchio’s Oscar nominations for costume design and make up, and Laura Pausini’s Io Sì nomination for best original song in Edoardo Ponti’s La Vita Davanti a Sé, pay tribute to our cinema, which reaffirms internationally its creative ingenuity, imagination and originality.”
Italian cinema as cultural and social heritage, as the expression of a national attitude, as a compendium of national characteristics and virtues, even if proposed through the creative lenses of a single person.
Everyone agrees with these considerations in theory, but it’s more difficult to use them in practice, not only because artists are instinctively jealous and proud of their work and uniqueness, but also because Italians are individualistic by nature. In other words: if it’s true that cinema is a natural crossover of arts and professions, of styles and contributions, it’s also true we live in a country that “is not that used to work as a system.” These are the words, to remain in the world of cinema, of Oscar winner Gabriele Salvatores, who said so in 2018, while introducing a movie festival in Milan to put into practice “what everyone knows, but not often remembers, that is, that cinema is the most contaminated of arts. It’s the union of all arts.”
Il cinema ha un grande pregio. E’ un’opera collettiva. Racchiude dentro la sua cornice tante meravigliose arti e le illumina spegnendo le luci attorno, cioè aiutando chi lo guarda, a concentrarsi sulla storia, sui personaggi che si muovono sullo schermo, sulla macchina che è stata capace di condensare in un montaggio tanti input sensoriali, emozionali, visuali, sonori. Concentra le nostre energie di spettatori su un “piano sequenza” che ha una molteplicità di punti di vista, di esperienze, di linguaggi, di interpretazioni possibili. Quando viene premiata un’opera si celebra in realtà un progetto plurale. Quando viene presentata in un circuito cinematografico, è il cortocircuito che “genera” a fare la differenza e che “rigenera” il prodotto filmico, adattandolo alle sensibilità personali, alle epoche, al sentire comune.
Si premia un autore ma dietro c’è sempre una squadra. La visione del singolo, per quanto illuminata e illuminante per il lavoro dei “gregari”, non può arrivare da sola a confezionare il risultato finale. Per questo, tutte le volte che qualcuno ce la fa, emerge sugli altri con il suo lavoro, bisognerebbe fare un lungo elenco di persone che hanno permesso di arrivare fino a lì, che hanno sostenuto, agevolato, promosso o ispirato il film. Per chi li ascolta, i ringraziamenti come i titoli di coda possono apparire noiosi, convenzionali, formali. Invece contengono (o dovrebbero raccogliere) tutta l’umanità che c’è dietro, il lavoro di gruppo, il merito che va necessariamente condiviso.
In un’opera poi, c’è un portato collettivo. Ogni artista è sempre interprete di un’epoca. Può essere visionario, surrealista, controcorrente, antisistema, ma pur sempre frutto di un contesto. E’ una delle tante voci possibili di un periodo storico, di una società, del sentire di un momento. Come la lingua che parliamo è un concentrato di stimoli, di filtri culturali che nel bene e nel male interpretano il nostro sentire fatto di pregiudizi e aperture, di slanci e stereotipi, così un artista è un “mezzo” di comunicazione. Una spugna che assorbe, rielabora e produce un mix di vissuto e creatività, di percepito e rielaborato, di ereditato e rinnovato. Ogni interprete, in questo senso, è frutto della sua epoca, del suo momento, del contesto di provenienza. Per carità, rigenerante anche: il talento individuale, che alza l’asticella dove altri non arrivano, crea sicuramente la plusvalenza.
Ma fa capire perché in un nome spesso ci si riconosce tutti, perché sentiamo patrimonio collettivo il risultato di un conterraneo piuttosto che di un artista che interpreta il nostro modo di essere, che incarna i nostri valori, rappresenta e riesce materialmente a riprodurre il modo in cui viviamo, le nostre paure, le nostre periferie, gli angoli bui e reietti così come riesce a dare voce a speranze, sogni e successi, fantasie e favole.
E’ quanto sta alla base di una dichiarazione come quella del ministro della Cultura Dario Franceschini: “Le candidature agli Oscar di ‘Pinocchio’ di Matteo Garrone per i migliori costumi e per il miglior make up e di ‘Io sì’ di Laura Pausini per la migliore canzone originale nella colonna sonora di ‘La vita davanti a sé’ di Edoardo Ponti, rendono merito alla nostra cinematografia, capace di affermare nel contesto internazionale il genio creativo, l’immaginario e l’originalità che le sono propri”. Cinema italiano come “heritage” culturale e sociale, come espressione di un’indole territoriale, come “summa” di caratteristiche e qualità nazionali pur se declinate in modo originale dai talenti personali.
Considerazioni che a livello teorico più o meno tutti condividono ma che nella pratica si fatica ad applicare non solo perché ogni artista è istintivamente geloso e orgoglioso della sua unicità ma perchè è la stessa natura degli italiani a essere individualista.
Se cioè il cinema è un naturale crossover di arti e professioni, di stili e contributi, viviamo pur sempre “in un Paese così poco abituato a fare sistema”. Per dirlo, restando in ambito cinematografico, usiamo proprio le parole del premio Oscar Gabriele Salvatores impiegate per presentare a Milano una rassegna cinematografica pensata nel 2018 per mettere in pratica “quello che tutti sanno ma poco praticano, ovvero che il cinema è la più contaminata delle arti. L’unione di tutte le arti”.
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