Venerdì 2 agosto l’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles ha aperto le porte ai colori e ai sapori dell’Oriente, in occasione della retrospettiva “Puro ed impuro: i film di Pier Paolo Pasolini” (Billy Wilder e Aero Theatre, 2 agosto – 9 settembre) e della mostra “L’Oriente di Pasolini nelle fotografie di Roberto Villa” (fino al 28 agosto).
 
In una breve intervista, il fotografo racconta lo straordinario viaggio tra Yemen e Iran sul set de ll fiore delle mille e una notte (Arabian Nights, 1974).
 
Come nasce questo viaggio al seguito di Pasolini?
Nasce per caso. Nel 1973 incontrai Pasolini durante un dibattitto, alla fine del quale lo avvicinai per chiedergli se avesse tempo e voglia di parlare del problema dell’integrazione del cinema con altre forme di comunicazione. Pasolini mi disse: “Sì, ne parlo volentieri, però tra un mese parto per girare questo film”. E poi aggiunse: “Se vuoi venire, avverto la produzione che c’è un fotografo che ci raggiunge.” Naturalmente sono andato. 
 
Non dev’essere stato facile partire così all’improvviso…
Era quello il problema: per un fotografo freelance abbandonare il lavoro per un tempo indeterminato significava interrompere i contatti di lavoro. Però sono contento di averlo fatto, perché altrimenti questo documento unico oggi non esisterebbe.
 
Com’è stata l’accoglienza sul set?
Quello che mi ha consentito di lavorare bene è stato proprio il rapporto con la troupe. Un giorno durante le riprese inciampai su un piccolo treppiede nascosto da un tappeto e feci cadere un faro, ma una voce romana dal fondo disse a Pasolini: “Niente dottò, una lampada s’è bruciata, adesso la sostituiamo, non c’è problema!” Ero diventato uno di loro.
 Il regista Pier Paolo Pasolini ritratto da Roberto Villa sul set de Il Fiore delle Mille e Una Notte

 Il regista Pier Paolo Pasolini ritratto da Roberto Villa sul set de Il Fiore delle Mille e Una Notte

 
Cosa ricorda del suo lavoro in Oriente?
Che era molto pesante: talvolta ci si alzava alle quattro e si rientrava alle quattro del mattino seguente, sbalzi di temperatura da -12 a +56, trasporti tragicomici come i Dakota della guerra del 1940. Ma le persone avevano grande forza e capacità di resistere alla sofferenza. Un giorno eravamo in pieno deserto, ma vicini al mare, e vediamo spuntare come in un film dei pescatori con un pesce enorme. Ce lo offrono cucinato al cartoccio lì sulla spiaggia in cambio di poche monete: non ricordo di aver mai mangiato un pesce così buono.
 
Ci racconta qualche altro aneddoto?
Immaginate una costruzione bianca di notte, la luna, le stelle, il massimo cantore yemenita che suona, e io seduto a discutere dei processi politici che avevano consentito l’integrazione di due forme estreme, marxismo e fondamentalismo islamico. A quella conversazione era presente anche un signore, che in seguito scoprii essere del controspionaggio e che mi difese quando rischiai di essere cacciato dal set perché ero stato presentato alla produzione da “Playboy”, un giornale capitalista.
 
Com’è stato lavorare con Pasolini?
Gli piaceva molto lavorare dietro la macchina da presa e quando poteva riprendeva lui personalmente. C’è una foto in cui è arrampicato sul muro con una scala: faceva di tutto pur di non rinunciare al suo punto di vista. È un’immagine incredibile. Spesso discutevamo, perché lui sosteneva che il cinema è il linguaggio delle realtà ed io il contrario. Ma in fin dei conti discutere con Pasolini non era uno scontro, era una lezione. Si rovesciava il meccanismo, provocandolo per ottenere quante più informazioni possibile. E non l’ho mai visto arrabbiato, la massima offesa che gli è scappata di bocca è stata “Che salame!”.
 
Dunque la mostra cosa ci racconta?
La mostra fa vedere Pasolini al lavoro e il contesto in cui si muoveva durante le riprese, come l’aereo che trasportava i materiali per il film e doveva atterrare nel deserto perché mancavano le piste. Ma non riguarda solo il “backstage” del film, si basa sulla morfologia ambientale e antropologica del luogo. I ritratti non sono catturati all’insaputa dei soggetti, le persone si lasciavano fotografare. C’era disponibilità. La gente era autentica, genuina; sorrideva. Persino le ragazze, con i loro vestiti che rappresentano un elemento problematico, avevano gli occhi sorridenti di chi si lascia fotografare, cosa che oggi non accadrebbe. Quello che ho documentato è un mondo perduto.
 
 In che senso?
Pasolini mi ha offerto la possibilità  di conoscere il Medio Oriente e la sua estrema ricchezza culturale, con le costruzioni di otto piani fatte di mattoni e terra cotti al sole che sono incredibili acrobazie di ingegneria edilizia e le decorazioni autentiche, non importate. La gente sentiva di doversi rappresentare così. L’impianto sociale non era stato privato dell’autenticità da altri eventi. Mentre già nel film Le mura di Sana’a Pasolini testimonia come l’intervento dei cinesi e altri importatori avesse provocato la corruzione del rapporto con l’ambiente.
 
Tornando alla mostra, quel è la sua foto preferita?
Senz’altro quella in cui Pasolini è  ritratto con una mano sulla cinepresa e con l’altra tiene il ciack. In quel momento guardava verso di me, allora gli ho dato il ciack e gli ho detto che volevo fotografarlo. Lui mi fa: “Sì vabbè, ma è una finzione”, e quando rispondo che lo è anche il cinema, lui sorride e io scatto. L’unico sorriso diretto alla macchina, non rubato, che abbia mai fatto in vita sua.
 
Cosa le ha detto Pasolini quando ha visto le foto?
Qualche mese dopo la fine delle riprese, mi disse che con le mie fotografie avevo realizzato un film in cui io ero il regista e lui l’attore.
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