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The Italian Dream. Because there is not only the American myth, the Far West to be conquered, the land of a thousand opportunities, that boundless horizon where dreams can become reality. October, the month of Italian Heritage, has this merit: it reminds everyone that there is also the land of our origins, our starting point, the place where it all began, the heart of our world. A place where we can start again, a pole of gravity that, sooner or later, is bound to attract us. Roots to deal with. 

During this month dedicated to our personal and shared identity, we talked about Italianness and Italian-Americanness. We asked you to tell us about the meaning you give to being “also” Italian or Italian-American, to understand what’s the value you attribute to the cultural baggage inherited from your family, what it means to you speaking and eating Italian, doing Italian things, having an Italian lifestyle, feeling part of  the Italian-American community. And that is why we are now talking about the “Italian Dream.”

For every migrant,  it  is at once a delight and a burden, and this is true for everyone: for those who left Italy at the beginning of the 20th century with a third class ticket, and for those who traveled in the 2000s, flying across the ocean in a handful of hours. 

Every expat has to come to terms with a way of thinking that is Italian, with the need to  remain a paesano  and to evolve at the same time, with the idea of returning to the Belpaese or leaving it behind forever, to do Italian things or to become fully Americanized,  to buy Italian products or to try other cuisines, to keep, over time, what Italy means or leave behind, perhaps just not to feel homesick anymore. Those who left, those who, today, live away from Italy, have been building little by little their Italian Dream. They create their own ideal of Italy and, with it, also part of their identity. 

For those who left, there was an “American Dream,” that is, the hope to reach, through courage and determination, a better life in the United States or to develop more professionally; for those who traveled across the ocean and ended up living in the US there is also an “Italian Dream,” a mythology of the Belpaese, a half romanticized, half fictitious ideal of Italy. For many immigrants, for their  children and grandchildren, Italy was and still remains a truly desired object, a longed for goal.  Something to take back. 

When you leave a country for another, you slowly understand that a part of you belongs to another place, to  another habitat. They are the places of your childhood, you education. The substratum we grew up in is always within us, in our head, it touches and  plays with part  of our feelings. It’s a piece of our personal memory, of the way we speak or spend time with our family. It may be a tad out of focus, perhaps, discolored by time or filtered through our memories, or those of our grandparents. But that image of Italy is dearly guarded in our hearts. And this is why that core of Italianness, of Italianità, remains a goal, an open question awaiting an answer, even when it stays on the periphery of our lives, on the background. 

“Immigration is a rupture, a laceration of our essential memory’s references, it is a brutal change of existence. You don’t leave your land, one don’t easily give up your culture, you don’t undertake that journey for pleasure.” When sociologists Stephen Castle and Mark Miller defined our contemporaneity  the “age of migrations,” they shed light on the wound represented by leaving, on the pain first generations usually suffer and, in part, pass on to second generations.These, even if they usually receive a good amount of authentic cultural inheritance (in our case of Italianità), become assimilated in their adoptive context, that is, again in our case, they become americanized. However, these children of Italians born and bred in the US, often feel suspended between two worlds. Their offspring, on the contrary, forgets about that severed umbilical cord, and  the  discomfort of being neither like their parents, nor like the dominant group. In time, it tends  to rediscover, with pleasure and  curiosity, to have connections somewhere else, roots in a far away, but very charming, place. It often tries to embrace its heritage with interest. It takes a trip back in time and reconnects to its history, to see where its ancestors left from. 

For the same reason, we keep cooking pasta “like nonna used to do,” we watch  eagerly documentaries about  Italy or join Italian courses. It isn’t a case that, today, many choose Italian as a second language, to the point it became the fourth most studied, as mentioned in the statistic published in connection with the Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, which this year reached its 20th edition and is a much awaited appointment of the month of October. 

But our heritage, our Italian Dream is also a powerful engine.  For us and for our community,  the added value of this month is this call to look within ourselves and understand what makes us Italian and Italian-American, and why we always feel inside us a grain, even if small, of Italianità.  It’s not only a trip to the past, but also a regenerating push forward: of course, it is a memory, a footprint in thoughts, the flavor of a dish, a family tradition,  the tie with someone who came before we were born. But it is also an active movement towards the future: a secret dream, the place you want to visit at least once in your lifetime, a cultural baggage to guard carefully, a heritage to promote, like L’Italo-Americano does. 

The Italian Dream. Perché non c’è solo il mito americano, il Far West da conquistare, la terra delle mille opportunità, l’orizzonte sconfinato dove i sogni possono diventare realtà. Ottobre, mese del Patrimonio Italiano, ha questo merito: ricorda a tutti che c’è anche la terra delle origini, il punto di partenza, il luogo da cui tutto ha avuto inizio, l’ombelico del mondo da cui ripartire, un centro di gravità che prima o poi ci attrae, la radice con cui fare i conti.

In questo mese dedicato alla nostra identità, personale e condivisa, abbiamo parlato di italianità, di italoamericanità. Vi abbiamo chiesto di raccontarci il senso che ciascuno di voi dà all’essere “anche” italiano o italoamericano, per capire il valore che attribuiamo al bagaglio culturale ereditato in famiglia, al significato che ha per noi parlare, mangiare e fare cose italiane, vivere seguendo l’Italian style, sentirci parte della comunità italoamericana. Ed è per questo che ora parliamo di Italian Dream.

Ogni immigrato ne subisce in qualche modo il fardello o la fascinazione, e questo discorso vale per tutti, per chi si è imbarcato all’inizio del Novecento con un biglietto di terza classe e per chi è decollato in questi anni duemila e in poche ore si è trovato dall’altra parte dell’oceano. Ogni espatriato fa i conti con un pensiero che ragiona italiano, con il desiderio di restare “paesano” o di evolversi, con l’idea di tornare nel Belpaese o di lasciarselo per sempre alle spalle, di fare cose italiane o di americanizzarsi, di comprare prodotti italiani o di provare altre cucine, di conservare nel tempo quel che per ciascuno significa Italia o di accantonarlo, magari solo per non soffrire la lontananza. Chi è partito, chi oggi vive da tanti anni lontano dalla penisola, costruisce man mano che passa il tempo il suo Italian Dream. Crea la sua idea di Italia e così facendo costruisce un pezzo della sua identità.

Se per chi è partito c’è stato un American Dream, cioè la speranza che attraverso il coraggio e la determinazione fosse possibile raggiungere negli Stati Uniti un migliore tenore di vita o la realizzazione professionale, per chi ha oltrepassato l’oceano e negli Usa ha finito per viverci, si può parlare di sogno italiano, di una mitologia del Belpaese, del desiderio, un po’ malinconico e un po’ artefatto, di Italia. Per tanti immigrati e figli e nipoti di italiani espatriati, l’Italia era ed è un oggetto del desiderio, una meta anelata. Un pezzo da recuperare.

Quando si lascia un posto per un altro, ci si rende pian piano conto che c’è una parte di sé che appartiene a un altro luogo e a un altro habitat. A questi luoghi corrisponde l’infanzia e la formazione. L’humus in cui si è cresciuti resta dentro, gira in testa, tocca una parte dei sentimenti. E’ una tessera della memoria personale, del modo in cui parliamo o stiamo in famiglia. Magari è un po’ sfocata, ingiallita dal tempo o filtrata dai ricordi personali o dei nonni, ma quell’immagine di Italia è ben custodita nel cuore, nei ricordi. Per questo, anche quando è sullo sfondo, quando occupa un ruolo marginale nella vita quotidiana, quel nocciolo di italianità che ci portiamo dentro attrae, diventa un traguardo, una questione in sospeso che aspetta di essere affrontata.

“L’immigrazione è una rottura, una lacerazione dei riferimenti della memoria essenziale, è un brutale cambiamento di esistenza. Non si lascia la propria terra, non si rinuncia facilmente alla propria cultura, non si intraprende quel viaggio per piacere”. Quando i sociologi Stephen Castle e Mark Miller
hanno definito l’epoca contemporanea come “l’età delle migrazioni”, hanno messo in luce la ferita della partenza, il dolore che le prime generazioni solitamente patiscono e in parte trasmettono alle seconde generazioni. Queste tendenzialmente, pur ricevendo una buona dose di eredità culturale autentica (di italianità nel nostro caso), si assimilano nel contesto di adozione cioè, sempre nel nostro caso, si americanizzano. Tuttavia, questi figli di italiani nati e cresciuti negli States, si sentono spesso sospesi tra due mondi. La loro discendenza invece, dimentica il cordone ombelicale tagliato e il disagio del non essere nè uguali ai genitori nè uguali al gruppo principale. Con il tempo tende a riscoprire, con piacere e curiosità, di avere legami altrove, radici piantate in un luogo lontanissimo da casa che però risulta un posto affascinante. Cerca spesso di riappropriarsene con interesse. Fa un viaggio a ritroso nel tempo per riannodare i fili della storia, per vedere da dove sono partiti gli avi.
Per lo stesso motivo si continua a cucinare la pasta “come la faceva nonna”, si guarda con avidità un documentario sul Belpaese o ci si iscrive a un corso di italiano. Non è infatti un caso se oggi tanti scelgono l’italiano come seconda lingua, che per questo risulta essere la quarta lingua più studiata, come ci ricordano le statistiche che accompagnano la Settimana della Lingua Italiana nel mondo, ormai alla sua XX edizione e ormai un appuntamento atteso del mese di ottobre.
Ma il nostro patrimonio italiano, il nostro Italian dream è anche un motore propulsivo.
Il valore aggiunto di questo mese, per noi e la nostra comunità, è questo invito a guardarsi dentro per capire cosa ci fa sentire italiani e italoamericani, al perché non possiamo fare a meno di percepire questo granello di italianità. Non solo un viaggio verso il passato, ma una spinta rigenerante: è certamente un ricordo, un’impronta lasciata nei ricordi, il sapore tipico di un piatto, una tradizione familiare, un legame con chi ci ha preceduto. Però è anche una proiezione verso il futuro: è un sogno nel cassetto, il luogo in cui voler andare almeno una volta nella vita, un bagaglio da non disperdere e persino un patrimonio culturale da promuovere come fa L’Italo-Americano.

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