Many Italian-Americans have Neapolitan and Sicilian roots and, among them, a great part has certainly fond memories of their grand parents or parents speaking in the “dialect” of their own native land. Some, I am sure, probably also learned it, a sincere and loving way to bond with family, but also to keep alive the connection with their ancestral home.
Neapolitan and Sicilian are special idioms, even for Italians: first of all, while in the rest of Italy regional dialects are usually left in the safe – and relatively hidden – haven of the home, and they seldom make an appearance among the younger and more formally educated, In Naples and Palermo everyone – and I mean, everyone – knows the dialect. From the waiter at your local restaurant to the university professor, everyone can switch from Italian to dialect and viceversa, and they do so with ease and aplomb.
Well… in truth, they don’t switch from a language to a dialect at all, they switch from a language to another, because both Neapolitan and Sicilian are, in fact, considered languages. UNESCO says that Sicilian is distinct from Italian, to the point it can be considered a separate language, which evolved not from Italian but — rather and just like Italian — from Latin. For this reason, it is considered by UNESCO a mother tongue, and Sicilians are considered bilingual! Moreover, the famous international organization also introduced Sicilian in the list of Europe’s vulnerable languages, which means it is a patrimony to protect.
The matter about Neapolitan is a tad different and more complex. Here, too, UNESCO is involved.
A bunch of years ago, in 2014, news spread about Neapolitan being declared “a language” by UNESCO, with some even writing it was to become part of its immaterial patrimony: indeed, if you search the net for “Neapolitan language,” you’ll be amazed by the enormous amount of articles stating just that. Pity it isn’t true.
Let me explain.
In 2014, UNESCO did introduce the “Neapolitan Language” or “Southern Italian” in its atlas of vulnerable and endangered languages – of which Sicilian is also part. So, yes, UNESCO does consider Neapolitan a language, but… is it the Neapolitan of Naples?
Yes and no, because with Neapolitan Language (or Southern Italian) UNESCO means a number of linguistic variations of our South, all with a common substratum, which include the dialect of Naples, but also those spoken in other areas like Abruzzo, Calabria or Apulia, as well as Naples’ own region of Campania. In other words, the Neapolitan language of UNESCO is not the same as the Neapolitan dialect of Naples, it is the union of all dialects spoken in the southern regions of Italy, which all have historical and linguistic characteristics in common.
At the heart of it all, however, lies the linguistic and cultural wealth of the dialects of our southern regions: they are not only a signifier of local pride, but also an important instrument of local identity and creativity and, indeed, of cultural dissemination: one only needs to think about the cultural weight of Neapolitan music, fully sung in Neapolitan , of course, to understand how far a “dialect” can travel and how culturally significant for the whole country it can be.
There is also another consideration to make, about the sheer number of people speaking Sicilian and Neapolitan (in the sense intended by UNESCO): 5 million for the first and 11 million for the second, including also those who speak it outside of Italy – and this, indeed, include all the Italian-Americans who still enjoy the beauty of their ancestors’ original idioms.
So, if your family comes from Sicily or, in general, from the South of the Belpaese, don’t be shy, do try and learn the colorful regional idioms of the villages your relatives came from: there is more to them than folklore. And learning them is a way to keep them alive and ensure this immense patrimony of beauty is preserved in time.
Molti italoamericani hanno radici napoletane e siciliane e, tra loro, gran parte ha sicuramente bei ricordi dei propri nonni o genitori che parlano nel “dialetto” della propria terra natale. Alcuni, con buona probabilità, l’hanno anche imparato, un modo sincero e affettuoso per stringere i legami dentro la famiglia, ma anche per mantenere vivo il legame con la terra ancestrale.
Il napoletano e il siciliano sono idiomi speciali, anche per gli italiani: prima di tutto, mentre nel resto d’Italia i dialetti regionali sono di solito lasciati nel rifugio sicuro – e relativamente nascosto – della casa, e raramente fanno la loro comparsa tra i più giovani e chi è formalmente educato, a Napoli e Palermo tutti – e intendo tutti – conoscono il dialetto. Dal cameriere del ristorante locale al professore universitario, tutti possono passare dall’italiano al dialetto e viceversa, e lo fanno con facilità e aplomb.
Beh… in verità, non passano affatto da una lingua a un dialetto, passano da una lingua a un’altra, perché sia il napoletano che il siciliano sono, di fatto, considerati lingue. L’UNESCO dice che il siciliano è distinto dall’italiano, al punto che può essere considerato una lingua separata, che si è evoluta non dall’italiano ma – piuttosto e proprio come l’italiano – dal latino. Per questo motivo, è considerato dall’UNESCO una lingua madre, e i siciliani sono considerati bilingui! Inoltre, la famosa organizzazione internazionale ha anche introdotto il siciliano nella lista delle lingue vulnerabili d’Europa, il che significa che è un patrimonio da proteggere.
La questione del napoletano è un po’ diversa e più complessa. Anche qui c’è di mezzo l’UNESCO.
Un po’ di anni fa, nel 2014, si diffuse la notizia che il napoletano sarebbe stato dichiarato “una lingua” dall’UNESCO, qualcuno addirittura scriveva che sarebbe entrato a far parte del suo patrimonio immateriale: infatti, se cercate in rete “lingua napoletana”, rimarrete stupiti dall’enorme quantità di articoli che affermano proprio questo. Peccato che non sia vero.
Mi spiego meglio.
Nel 2014, l’UNESCO ha introdotto la “lingua napoletana” o “italiano meridionale” nel suo atlante delle lingue vulnerabili e in pericolo – di cui fa parte anche il siciliano. Quindi, sì, l’UNESCO considera il napoletano una lingua, ma… è il napoletano di Napoli?
Sì e no, perché con Lingua Napoletana (o Italiano del Sud) l’UNESCO intende una serie di varianti linguistiche del nostro Sud, tutte con un substrato comune, che comprendono il dialetto di Napoli, ma anche quello parlato in altre zone come l’Abruzzo, la Calabria o la Puglia, oltre alla stessa Campania dove c’è Napoli. In altre parole, la lingua napoletana dell’UNESCO non coincide con il dialetto napoletano di Napoli, ma è l’unione di tutti i dialetti parlati nelle regioni meridionali d’Italia, che hanno tutti caratteristiche storiche e linguistiche in comune.
Alla base di tutto, però, c’è la ricchezza linguistica e culturale dei dialetti delle nostre regioni meridionali: essi non sono solo un motivo di orgoglio locale, ma anche un importante strumento di identità e creatività locale e, appunto, di diffusione culturale: basti pensare al peso culturale della musica napoletana, interamente cantata in napoletano, naturalmente, per capire quanto un “dialetto” possa viaggiare e quanto possa essere culturalmente significativo per tutto il Paese.
C’è anche un’altra considerazione da fare, sul numero di persone che parlano siciliano e napoletano (nel senso inteso dall’UNESCO): 5 milioni per il primo e 11 milioni per il secondo, compresi anche quelli che lo parlano fuori dall’Italia – e questo, appunto, comprende tutti gli italo-americani che ancora godono della bellezza degli idiomi originali dei loro antenati.
Quindi, se la vostra famiglia viene dalla Sicilia o, in generale, dal Sud del Belpaese, non siate timidi, cercate di imparare i coloriti idiomi regionali dei paesi da cui provengono i vostri parenti: c’è molto più del folklore. E impararli è un modo per mantenerli vivi e far sì che questo immenso patrimonio di bellezza si conservi nel tempo.
Parola del giorno: passeggiata, amata attività italiana
Passeggiare o fare una passeggiata (pahs-sai-djah-ta) è l’attività preferita in Italia, insieme al calcio e all’aperitivo con gli amici. La parola è attestata per la prima volta nel nostro vocabolario nel 1566: da allora gli italiani passeggiano volentieri.
Fare una passeggiata significa fare un giro, ma può avere anche molti significati segreti. Quando si dice vado a fare una passeggiata, si può intendere qualsiasi cosa, da “ho bisogno di pensare” a “è tempo per me di decomprimere e stare da solo”. Oppure, ovviamente, si può semplicemente voler fare una bella passeggiata.
Se siete in una città di mare, la passeggiata è un luogo vero e proprio: il lungomare. Quindi, può capitare di fare una passeggiata sulla passeggiata, ovvero “fare una passeggiata sul lungomare”.
Andare a passeggio è un’altra espressione popolare, che significa quasi la stessa cosa di fare una passeggiata, ma ha una connotazione leggermente più urbana: è più probabile che si vada a fare una passeggiata in qualche posto all’aperto, mentre andare a passeggio è in qualche modo più simile al camminare su e giù per la strada principale del posto. Andare a passeggio ha anche un fascino un po’ retrò, da inizio secolo: è qualcosa che in passato le belle donne in corpetto con gli ombrellini avrebbero fatto per passare i loro lunghi pomeriggi oziosi.
Oggi, la passeggiata è l’ultimo esercizio per mantenersi in salute e tornare in forma: fai una passeggiata al giorno per dimagrire e questo può essere vero, ma è difficile dimagrire quando vivi nel Paese con il miglior cibo del mondo!
Ho bisogno di schiarirmi le idee, vado a fare una passeggiata
I need to think, I am going to take a walk
Ci vediamo sulla passeggiata alle 8
I’ll meet you on the promenade at 8
Le passeggiate in campagna mi rilassano
I find walking in the countryside very relaxing
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