Sebastian Maniscalco at the About my Father premiere in Chicago (Photo: Barry Brecheisen)

What brings all immigrants together? They speak different languages and they come from vastly different places. Some of them traveled first class on a late 19th-century transatlantic ship, where surviving the crossing was an achievement in itself. Others waited ten years for their Green Card, or maybe they won it. They may have arrived as children because their parents or grandparents decided for them, or made it to the New World on their own, propelled by dreams and ambitions too strong to be silenced. Regardless of the fate, driving force, cause, or circumstances that physically led them “somewhere else,” migrating caused a physical fracture, a separation in all of them. It marked a “before” and an “after.” It was a watershed moment, a more or less painful cutting of the umbilical cord.

Separation, for migrants, can take the shape of emancipation or pain, it can be a painful tear or an evolution, a trauma or a positive starting point, a conquest or the end of a dream. In any case, it is always a change. It doesn’t really matter if it is deep and lacerating or seemingly superficial: separation means opening a gap, little by little. Tackling the challenge sometimes paid off, and sometimes it led to failure: whatever the result, the plunge had been taken. 

Going back, sometimes (but not always) is possible. Sometimes it’s just a trip or a summer vacation; sometimes is forever, because we realize our dreams cannot become true, or we struggle to fit in, or because of force majeure. Whichever reason we go back, we are not the same person who left. We are going to be different when facing those who never left and those who did; we are going to be, more often than not, discordant with the surrounding context, foreigners in both lands. Different from the people who have never left home, but also from the world which we had strenuously tried to integrate into. 

Migrants are not only those who carry within a life experience different from that of the community that welcomes them, they are also those who become different from the community they had departed from. If you think about it, they spent their most recent past in a foreign land, a place they slowly came to regard as a second home. They poured their life and energy into this place, often without getting back much, yet they absorbed its colors and nuances. That’s why, when they go back home, they are no longer the same person they were before, and they feel profoundly different from those around them. This experience propels them to confront some fundamental questions about their past, their roots, and their identity within the society they originally came from. 

Regardless of whether the migration experience is successful or not, whether it lasts two months, ten years, or a lifetime, whether it began as a temporary venture due to a study trip but ultimately transformed into a life choice, or whether it was initiated to break away from the past and start a new life chapter, that departure unequivocally marked a specific stage in life, leaving deep, indelible traces.

The sense of belonging to one place over another, or the coexistence of two worlds, constitutes an internal fault line that will shake one’s certainties each time; it is like an unsettling question that will persistently nag. This isn’t just because deciding which side to stand on — what to become, whether to assimilate or reject elements of one world or the other — is the result of a choice. This is also because, unlike a natural journey where everything seems predestined, each change here brings a moment of self-questioning, a renewal of choice.

Migrating means reconciling constantly who you were before with the person you’ve become. It means handling how you’re navigating the transition, with dreams and ambitions, and the doubt that life under different conditions could have been starkly different. Migrants share a sense of estrangement, of dual belonging, and of never feeling fully at home neither here nor there. Yet, if there is a common mistake, it is not recognizing the inherent wealth in this coexistence of multiple identities: an enhanced heritage to be proud of.

Struggling to adapt, absorbing new things, learning a language and a different way of living, they all speak of our willingness to take risks, to be, in a sense, better than what we had imagined. This is more than a personal victory, more than a personal wealth: it also contributes to both our society of origin and our new society, each placed in a position to “learn” something new.

Why do so many people living the migration experience find common ground in life stories and experiences that seem vastly different but are, in essence, very similar? Precisely for these reasons.

Cosa accomuna le storie degli immigrati? Possono parlare lingue diverse, provenire da posti lontanissimi tra loro, avere fatto viaggi in prima classe o su un transatlantico di fine Ottocento dove sopravvivere alla traversata era già un successo, impiegato dieci anni o vinto una green card, possono esserci arrivati bambini perché così hanno deciso per loro i genitori o i nonni, oppure con le proprie gambe trascinati da sogni e ambizioni troppo forti per essere messi a tacere. 

Qualunque destino, forza propulsiva, causa o condizione li abbia fisicamente portati in un “altrove” rispetto al punto di partenza, in tutti loro l’esperienza migratoria ha generato una separazione. Ha segnato un prima e un dopo, quel momento è stato uno spartiacque, un taglio del cordone ombelicale più o meno doloroso. 

Questo distacco è stato causa di emancipazione o dolore, è stato una lacerazione o un’evoluzione, un trauma o un trampolino, una conquista o una disillusione. In ogni caso è stato un cambiamento. Profondo e lacerante o apparentemente superficiale ma capace poco alla volta di aprire un varco, non importa. Lanciare il cuore oltre l’ostacolo qualche volta ha pagato le fatiche fatte e qualche altra volta, invece, è stato solo un conto salatissimo da pagare, ma sta di fatto che il salto nel buio è stato fatto. 

Anche quando si è avuta l’opportunità di tornare indietro (quando accade perché non sempre è possibile), magari anche solo temporaneamente durante un viaggio o una vacanza estiva, oppure per sempre sia come scelta più matura, sia come rinuncia ai sogni e cedimento alle fatiche di inserirsi, sia per cause di forza maggiore, comunque si sarà diversi, non più quelli di prima. Ci si ritroverà, sia nel confronto con chi è rimasto sia con chi si è lasciato, profondamente cambiati, spesso dissonanti rispetto al contesto circostante, un corpo estraneo sia da una parte che dall’altra. Si sarà molto trasformati rispetto a chi è rimasto, non è mai partito, ma anche rispetto al mondo lontano in cui ci si era faticosamente inseriti.

Il migrante non è solo colui che porta con sé un vissuto altro, disomogeneo rispetto alla comunità di arrivo, ma è anche colui che rispetto al contesto di partenza diventa anomalo. In fondo, in quel suo passato prossimo speso in una terra straniera, che però poco alla volta impara a sentire “anche” un po’ sua, ha intinto la sua vita e le sue energie, spesso non ricambiato, ma comunque ne ha assunto i colori, le sfumature. Per questo, anche quando torna a casa, “indietro”, non è mai quello di prima e sarà sempre meno uguale agli altri. Per questo sarà anche chi pone all’interno della propria società di partenza alcune questioni fondamentali sul passato, sulle radici, sulla propria identità. 

Al di là del successo o meno dell’esperienza migratoria, se questa durerà due mesi, dieci anni o una vita intera, se sia cominciata per essere temporanea per via di un viaggio studio ma alla fine si è trasformata in un una scelta di vita, oppure se sia nata per chiudere con il passato e aprire un nuovo capitolo della propria vita, quella partenza ha in ogni caso segnato una fase precisa della vita che, quando è avvenuta, ha inevitabilmente lasciato tracce profonde. Il senso di appartenenza a un posto  piuttosto che a un altro o la convivenza di due mondi è una faglia interiore che scuoterà le certezze ogni volta, una domanda inquieta che tormenterà. Non solo perché decidere da che parte stare o cosa diventare, se assimilare o rifiutare elementi di un mondo o dell’altro, sarà frutto di una scelta, ma perché, a differenza di un percorso naturale dove tutto sembra un percorso già tracciato, nel cambiamento ogni volta ci si mette in discussione, si rinnova la scelta.

Emigrare significa fare sempre i conti con chi si era prima, come si è diventati dopo e come si sta gestendo il passaggio durante, con sogni e ambizioni, con il dubbio che la vita in altre condizioni poteva essere diversissima. Gli emigrati sono accomunati dal senso di straniamento, della doppia appartenenza e dal non sentirmi mai completamente né di qua né di là ma, se si può trovare un errore, sempre che ci sia, è non considerare questa convivenza di più definizioni una ricchezza, un patrimonio maggiorato di cui andare fieri. Proprio la fatica di adattarsi, di assorbire cose nuove, di imparare una lingua e un modo diverso di vivere, racconta della propria capacità di mettersi in gioco, di essere in un certo senso più bravi di come ci si immaginava. Una ricchezza che tra l’altro non solo è individuale, ma è un contributo che viene dato tanto alla società di provenienza quanto a quella di arrivo, ciascuna messa nelle condizioni di “imparare” qualcosa di nuovo. 

Perché tante persone che vivono la migrazione si ritrovano in vissuti ed esperienze che sembrano molto diversi tra loro ma in fondo sono tutti simili? Esattamente per queste ragioni

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