How much do we belong to the places where we live, and how much do these places become a part of us? These questions might seem to offer straightforward answers, but the crux of the matter is different: how aware are we of this relationship?
In a world seemingly homogenized by globalization — where our social media feeds bombard us with increasingly similar and artificially curated images — a closer examination of our immediate environment can serve as a grounding point.
Much of who we are stems from the environment we inhabit, the family that raises us, and the community we engage with. Similarly, the landscape around us profoundly influences our lives — from our living conditions and architectural choices to the clothing we wear for weather appropriateness, right down to the urban structures that define our locales. We consume certain foods because they are local, or adopt specific customs because they are the tradition of the place. Moreover, whether we keep our windows open or closed depends on external factors like scorching sunshine, bone-chilling snow, or potentially smog-ridden traffic. A little extra thought into how deeply our behaviors are tied to the environment can illuminate the environment’s profound impact on us.
If we further consider that each place has its own long history — that is, it exists in its current form because it was previously created, altered, adapted, and interpreted by those who came before us — it becomes evident that “our” places are far from neutral. They convey narratives and experiences that have been passed down, making us living vessels of these stories and experiences.
Whether it’s the “our” in “our home,” the city we identify with, the park at the end of “our street,” or the skyline that unfolds as we embark on “our” jogging route, these places say a great deal about who we are. Though we might not distinctly realize it —until perhaps we switch cities or states for college or move a two-hour flight away for work — each place we inhabit contributes to shaping our mental map.
Contained within this mental map is not just a reflection of ourselves but also of the environment that surrounds us. The very definition of a “place” is molded in our minds. We define it not merely through its physical characteristics, but through our perceptions, sensations, the value we assign based on our experiences there, and even the meanings that others who inhabit or interact with that place have given it. Every location is a compendium of images from the past, a result of changes over time, of legacies handed down or lost throughout the centuries. In essence, it forms a part of our personal and social memory and our identity. While it has a tangible, material aspect, it’s also a construct that involves our memories, human influence, and the way we navigate through it.
Why discuss places during this Italian Heritage Month? Precisely because, similar to the objective of the exhibition on UNESCO sites hosted at the Italian Cultural Institute of Los Angeles —which we discuss in our cover story — when we observe our places, we gradually uncover a great deal about our cultural identity.
If you reside in San Francisco, accustomed to the fogs that envelop the Golden Gate Bridge and the deep greens of valleys that overlook the wind-swept blue ocean, you’d find it difficult to identify with the arid, sun-browned colors of the nearby Nevada desert. If you see a photo of Vesuvius, even if it’s miles away, it’s likely you’ll feel it’s much “closer” because your mind houses images embedded from grandparents’ tales, memories of distant travels, and fragrances described to you, perhaps even old photographs that make it a familiar place.
Our heritage, both cultural and natural, is comprised of far more than mountains or plains, rocky coasts, or winter mists. A native of Piedmont living in Napa Valley will see a piece of his homeland because he carries it within him. A Sicilian fisherman who emigrated to the West Coast in the early 20th century envisioned San Pedro in Los Angeles as a slice of his homeland, even though the Pacific is a world apart from the Mediterranean.
We identify with places, carry pieces of them within us, and interpret new landscapes through the lens of those we’ve inhabited. This is why we bring along traditions, rituals, culinary habits, and celebrations that belong to different locales from where we’ve moved for study, work, or living. We are the places where we were born and raised, our families, our ancestors, and the history of our communities. We’re also the places we’ve lived in — the homes, the towns, and their traditions, Sunday rituals or public holidays, the people we’ve met, and the communities that have shaped our way of inhabiting a place. From the moment we are born, we start to belong to a place, absorbing and remembering it. This means we will carry it with us, even if we are a thousand miles away, across an ocean, or 11 hours by plane.
These places, no matter how distant, forgotten, or abandoned, will chase us. When we move, we also carry away a piece of those places’ identities—how life was lived there, the gestures and language, the social rituals, the bonds of a community.
Understanding these affiliations, reclaiming and processing them, is a fascinating journey towards self-discovery. Often, we’re unaware of the immense baggage we carry within. Having a month each year to reflect upon this is, in the end, a generous gift — it provides a unique and rare time to realize it. So unwrap this gift given by Italian Heritage Month, dear readers, and revel in the surprise of this Italian-American heritage we carry within.
Quanto apparteniamo ai luoghi in cui viviamo? E quanto questi luoghi sono parte di noi? Le due domande sembrano portare a risposte abbastanza ovvie ma il nocciolo della questione è un altro: quanto ne siamo consapevoli?
Se ci sentiamo un po’ “frullati” dalla globalizzazione per cui tutto il mondo attorno a noi sembra omogeneizzarsi, assomigliarsi, replicarsi un po’ ovunque, con i social che ci bombardano di immagini sempre più simili e sempre più artefatte, osservare con attenzione il paesaggio che abbiamo intorno può aiutarci a ritrovare un baricentro.
Molto di quello che siamo lo dobbiamo all’ambiente in cui viviamo, così come alla famiglia in cui cresciamo e alla comunità che frequentiamo. Allo stesso modo, anche il paesaggio influisce su di noi: dal modo in cui viviamo alla tipologia delle case in cui abitiamo, dai vestiti che indossiamo perché ci rendono adatti alle condizioni climatiche del contesto alle forme di urbanizzazione che disegnano i luoghi in cui stiamo. Mangiamo certi cibi perché sono locali o seguiamo certe abitudini perché è usanza del posto. Ancora, teniamo aperte o chiuse le finestre perché c’è fuori il sole caldo, la neve che fa battere i denti o il traffico che potrebbe riempire la stanza di smog. Basterebbe pensare qualche volta in più, a quanto molto dei nostri comportamenti dipende dal luogo in cui stiamo, per renderci conto dell’impatto che un ambiente ha su di noi. Se poi pensiamo che ogni luogo ha una lunga storia alle spalle, cioè è così perché prima di noi è stato creato, modificato, adattato, interpretato da chi è venuto prima, è facile rendersi conto di quanto i “nostri” luoghi non siano neutri ma ci trasmettano storie o esperienze.
Casa “nostra” piuttosto che la “nostra” città, il parco in fondo alla “nostra” strada o lo skyline che si disegna mentre seguiamo il “nostro” percorso di jogging, raccontano moltissimo di chi siamo. Anche se non ce ne accorgiamo distintamente se non quando cambiamo città o Stato durante il college o mentre ci trasferiamo per lavoro a due ore di aereo da casa, ogni nostro luogo contribuisce a disegnare la nostra mappa mentale.
Dentro questa mappa c’è molto di noi ma c’è anche molto dell’ambiente attorno a noi.
La definizione stessa di luogo passa dalla nostra testa perché lo definiamo non solo attraverso una serie di caratteristiche fisiche ma attraverso la nostra percezione che è fatta anche dalle sensazioni che proviamo, dal valore che gli attribuiamo in base all’esperienza che facciamo in quel luogo, dal significato che altre persone gli hanno dato perchè lo abitano, lo hanno modificato o interagiscono con esso. Ogni luogo è anche un condensato di immagini che arrivano dal passato, è il frutto dei cambiamenti subiti nel corso del tempo, di quello che ci hanno tramandato o di quello che si è perso nel passaggio dei secoli. E’ cioè un pezzo della nostra memoria personale e sociale e della nostra identità. Ha una parte fisica, materiale e concreta, ma è anche una nostra costruzione che ha a che fare con i ricordi, l’antropizzazione, il modo in cui ci muoviamo in esso.
Perché parlare di luoghi in questo Italian Heritage Month? Perché, esattamente come induce a fare la mostra sui siti Unesco allestita all’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles, di cui parliamo nella storia in copertina, se osserviamo i nostri luoghi vediamo poco alla volta emergere molto della nostra identità culturale.
Se abitiamo a San Francisco e siamo abituati alle nebbie che avvolgono il Golden Bridge, al verde profondo delle vallate che si affacciano sul blu dell’oceano spazzato dal vento impetuoso, difficilmente riusciremo a riconoscerci nei colori secchi e bruniti dal sole del pur vicino deserto del Nevada. Se vediamo una foto del Vesuvio, anche se è molto lontano, è probabile che lo sentiamo molto più “vicino” a noi perché nella nostra testa ci sono immagini sedimentate dai racconti dei nonni, da ricordi di viaggi lontani, dai profumi che ci sono stati descritti, magari da vecchie foto che ce lo rende un luogo familiare.
Il nostro patrimonio, culturale e naturale, è fatto di molto di più di montagne o pianure, coste rocciose o brume invernali. Un piemontese che vive nella Napa Valley vedrà un pezzo della sua terra perché se l’è portata dentro. Un pescatore siciliano emigrato nella West Coast, quando è arrivato a inizio Novecento ha immaginato il quartiere di San Pedro a Los Angeles come un pezzo della sua terra anche se il Pacifico era tutt’altra cosa rispetto al Mediterraneo.
Ci riconosciamo nei luoghi, ne portiamo dentro pezzetti, interpretiamo paesaggi nuovi come quelli che abbiamo abitato ed è per questo che ci portiamo dietro tradizioni, rituali, abitudini culinarie e feste che appartengono a luoghi diversi da quelli in cui ci siamo spostati per studiare, lavorare o vivere. Siamo il luogo in cui siamo nati e cresciuti, la nostra famiglia, i nostri antenati e la storia delle nostre comunità, siamo anche i luoghi che abbiamo abitato, le case, i paesi e le loro tradizioni, i rituali della domenica o delle feste comandate, le persone che abbiamo incontrato e le comunità che hanno costruito un modo di abitare un luogo. Quando nasciamo iniziamo ad appartenere a un posto, ad assorbirlo, a ricordarlo. Significa che ce lo porteremo dietro anche a mille miglia, un oceano o 11 ore di areo di distanza. Quei luoghi per quanto lontani, rimossi, abbandonati, dimenticati, ci inseguiranno. Quando ci spostiamo, portiamo via anche il pezzo identitario di quei luoghi cioè il modo in cui si viveva, i gesti e la lingua, i rituali sociali, i legami di una comunità.
Capire queste appartenenze, recuperarle, elaborarle è un affascinante viaggio alla scoperta di noi stessi. Tante volte non siamo consapevoli del gigantesco bagaglio che ci portiamo dentro. E avere un mese all’anno per pensarci è in fin dei conti un gran regalo perché è un tempo più unico che raro per rendersene conto. Scartate questo regalo che ci fa l’Italian Heritage Month, cari amici lettori, e godetevi la sorpresa di questo patrimonio italo-americano che ci portiamo dentro.