Proiettata a Hollywood la speranza italiana di ri-vincere l’Oscar: il senso profondo dell’arte di ‘Cesare deve morire’

Nei giorni scorsi è stato proiettato all’Egyptian Theatre di Hollywood, nell’ambito della rassegna “Cinema Italian Style” a cura dell’organizzazione American Cinematheque, il film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”.

Alla serata sono stati invitati i registi che ci hanno raccontato qualcosa di questa avventura che li ha portati a vincere l’Orso d’oro al festival di Berlino 2012 e alla candidatura al premio Oscar 2013 come miglior film straniero.

Queto film è il frutto di un’idea geniale.
Al carcere di massima sicurezza di Rebibbia, a Roma, i detenuti mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare. Il film è girato per lo più in bianco e nero, nelle celle, nei corridoi, nella stanza per le prove teatrali, nel cortile, dietro le sbarre, insomma nei luoghi dove sono confinati i carcerati. 
 
Assistiamo gradatamente a tutto il processo di realizzazione del lavoro teatrale, dalla scelta degli attori alle varie prove, ai momenti di studio individuale e di confronto personale con il testo. Della rappresentazione finale sul palcoscenico davanti al pubblico ci viene mostrata solo la scena conclusiva, questa volta a colori, come a dire che il contatto con l’arte di Shakespeare ha dato un senso al grigiore del carcere e alla vita dei prigionieri. 
 
Come hanno spiegato Paolo e Vittorio Taviani nel loro intervento introduttivo alla proiezione e poi durante il dibattito con il pubblico, si poteva leggere negli occhi dei protagonisti una consapevolezza del significato dell’atto dell’uccisione che solo un criminale può avere. 
 
In questo senso i fratelli Taviani hanno trovato gli attori perfetti che ogni regista sognerebbe per rappresentare i personaggi di un film: i cospiratori, i traditori e assassini di Cesare erano stati nella vita reale chi omicida, poi condannato al carcere a vita, chi spacciatore, chi camorrista o mafioso.
 
L’immedesimazione necessaria per una perfetta interpretazione non deve così essere forzata, ma arriva in modo naturale e viene percepita con emozione, e forse con un certo sgomento, dal pubblico. Contribuisce alla naturalezza della recitazione anche l’uso da parte degli attori del loro dialetto: Shakespeare si traduce qui in una Babele di idiomi regionali.
 
La cospirazione e l’ambizione, l’adulazione e il sospetto, la paura e l’audacia, si dipingono sui volti di questi improvvisati attori che, in alcuni primi piani e inquadrature dal basso, mostrano impressionanti somiglianze con i busti di antichi romani esposti nei musei. Allo stesso modo la reazione della folla, esaltata dal discorso che Marco Antonio pronuncia sul cadavere di Cesare, in una potente sequenza del film, vive nelle grida dei detenuti che si arrampicano sulle grate delle finestre, come se la violenza di massa che tante volte il cinema ha rappresentato in scene di rivolte nelle carceri venisse qui liberata e incanalata nella finzione teatrale. 
 
E il pubblico prova davvero, in questo modo, come si voleva che fosse di fronte alle antiche tra-gedie, un senso misto di paura e pietà per questa umanità risvegliata. Ma qui i registi ammoniscono il pubblico: attenzione a non farci prendere dall’inquietante trasporto verso i personaggi al punto da diventare troppo indulgenti verso chi ha sbagliato: non offendiamo il dolore delle vittime di questi detenuti! 
 
C’è una frase pronunciata da uno degli attori alla fine del film che ci illumina sul senso di questo esperimento: per i detenuti che hanno vissuto questa esperienza la vita non sarà più come prima. L’arte li redimerà e li salverà o li renderà solo tardivamente e tragicamente consapevoli del bene e del male?
 
Senz’altro ha contribuito a renderli più umani, a non “viver come bruti” (l’idea di girare il film nelle carceri fu ispirata ai Taviani da una lettura in carcere dell’Inferno di Dante). In una breve scena il film ci mostra uno degli attori che si ritrova a sfogliare il De bello gallico di Cesare, a lui così ostile e incomprensibile negli anni del liceo. Chi scrive questo articolo, se fosse ancora in Italia a insegnare Latino, porterebbe senz’altro tutti i suoi studenti a vedere questo film.
 

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