When I was a child, Carnevale was the occasion to don some improbable outfit, usually involving satin gowns and glitter or, depending on the mood of the year, a musketeer hat and a plastic sword. Possibly already nodding to what was to become my academic field of research, I also had a penchant for Roman warriors and fondly remember a cardboard helmet topped with red yarn I had made once, silently and patiently helped by my grandmother, when I was in 4th or 5th grade.
That was Carnevale for us children: a moment to dream, to put on make up and colorful clothes, to go to dances and, of course, to dig into the deliciousness of its typical food. As a Piedmontese, it would have been bugie – known as chiacchiere or frappe in other parts of Italy – and friscieu, those warm, soft and sweet dough balls, deep fried and rolled in sugar I still adore today: my favorite were those with raisins, but the apple ones were to die for, too. It was like a ritual, queueing in my village square, on the afternoon of Giovedì Grasso,dressed up as a Pierrot or a fairy queen or Little Red Riding Hood, to get a small bag of friscieu from the hands of whichever old lady from the parish in charge of distribution.
They were the best of times.
Then you become a teenager and Carnevale turns into an occasion to be daring with your make up, turn into your idol and even cross dress: one year, I went as Kurt Cobain and my boyfriend as Courtney Love. He was a fantastic Courtney, although I was the one with the rockstar attitude.
When adulthood hits, though, you start looking at Carnevale with different eyes, and recognize how all that eagerness to change your appearance and being somebody else you had as a youngster sort of looses a bit of appeal when you grow up: maybe it’s because you feel a bit more comfortable in your own skin, or maybe because there isn’t, quite simply, time enough in our days of working adults to come out with ideas and put together decent costumes. So you start thinking of Carnevale a bit differently, you start wondering about what it truly means and where it comes from.
Historians all very much agree Carnevale is distinctively associated with the Catholic calendar, embraced as it is by Christmas time and Lent, but that its roots are much more ancient. You see, the month of February, when more often than not Carnevale takes place, used to be dedicated to spiritual cleansing and to purification. The Romans, and the Etruscans before them, also considered this time of the year a moment of passage between seasons and thus perfect to get in touch with the dead and the Otherworld.
Never to be left without something to party about, our Latin ancestors also had the Lupercalia in the same period, a feast to honor fertility. However, it is while praising Saturn, the god of the Golden Age, that Rome really offered us a first glance into the world of Carnevale: the Saturnalia, the feast of Saturn, celebrated his reign of abundance by revelling in banquets, balls and a temporary, joy-filled subversion of canonical, everyday rules: not far from modern day’s Carnevale celebrations, when “ogni scherzo vale,” every trick is allowed.
In many a way, the Carnevale of Catholics, dependent as it is on the following time of penitence and purification of Lent, recalls the need to momentarily “let go” and refocus before the intense period of meditation and spiritual reflection to come. And so, Carnevale maintained its soul and essence, in spite of centuries passing, and religions in the peninsula changing.
Today our Carnevale, the one that most reflects Italy’s traditions, colors and artistic heritage, is certainly that of le Maschere. Le Maschere, that set of regional figures, each of them associated with a specific outfit and a specific set of moral and personal characteristics, are the real and most authentic face of an Italian Carnevale. Children of the beautiful baroque times of la Commedia dell’Arte, le Maschere are more than representations of people’s stereotypical defects or of a region’s own most quintessential inhabitants, they are the heart itself of the feast. In spite of time passing and trends changing, they remain popular, they remain central to every parade, unlikely to be carried out without even one of them participating.
The reason goes behind their sheer ties with the country’s art and theatre, as important and beautiful as they may be: our Maschere mirror our defects, our strengths, our downfalls and, once a year, they allow us to look at them with a tad more of humor. Arlecchino, with his eternal necessity to trick and smart out everyone else, his charming and coquettish girlfriend Colombina, light hearted and easy on the eye, or Balanzone, the perfect embodiment of some intellectual types who believe to be the only ones to have read more than a Reader Digest’s version of Shakespeare, each one of them is, even if in an infinitesimal part, within us.
When we see them, with their excesses and idiosyncrasies, we recognize a tiny crumb of ourselves in them and, alas, we smile at the connection, learning not to take ourselves too seriously all the time. And how immensely important is, in a world made of duties and unrighteous self-entitlement, to recognize with a touch of light-heartedness we are not perfect?
That is it. That’s why our beloved Maschere are still dear to our hearts in Italy, a couple of centuries after Teatro dell’Arte went out of fashion and became a little more than a period embodiment of the performing arts: it’s because we see ourselves in them, defects and all, and we understand at once we need to be a bit less pompous, but a bit less harsh on ourselves, too.
Quando ero bambina, il Carnevale era l’occasione per indossare un vestito improbabile, di solito abiti di raso e paillettes o, a seconda dell’umore dell’anno, un cappello da moschettiere e una spada di plastica. Forse già indicando quello che sarebbe diventato il mio campo accademico di ricerca, avevo anche un debole per i guerrieri romani e ricordo con affetto un elmo di cartone con in cima un filo rosso che avevo fatto una volta, aiutata silenziosamente e pazientemente da mia nonna, quando ero in 4° o 5° elementare.
Quello era il Carnevale per noi bambini: un momento per sognare, per truccarsi e mettersi vestiti colorati, per andare a balli e, naturalmente, per tuffarsi nella prelibatezza del cibo tipico. Da piemontese, avevamo le bugie – note come chiacchiere o frappe in altre parti d’Italia – e i friscieu, quelle palline di pasta calde, morbide e dolci, fritte e rotolate nello zucchero che adoro ancora oggi: le mie preferite erano quelle con l’uvetta ma mi piacevano tantissimo anche quelle alle mele. Era come un rituale, in fila nella piazza del mio paese, nel pomeriggio del Giovedì Grasso, vestiti da Pierrot o da regina delle favole o da Cappuccetto rosso, per prendere un sacchetto di friscieu dalle mani di una vecchia signora della parrocchia incaricata della distribuzione.
Sono state le migliori di sempre.
Poi si diventa adolescenti e il Carnevale si trasforma in un’occasione per osare con il trucco, per trasformarsi nel proprio idolo e persino per travestirsi: un anno, sono diventata come Kurt Cobain e il mio fidanzato come Courtney Love. Era un fantastico Courtney, anche se ero io quella con l’atteggiamento da rockstar.
Quando però arriva l’età adulta, si inizia a guardare al Carnevale con occhi diversi, e ci si rende conto che tutta quella voglia di cambiare il proprio aspetto ed essere qualcun altro che si aveva da piccoli, una volta cresciuti perde un po’ di appeal: forse è perché ci si sente a proprio agio un po’ di più nei propri panni, o forse perché, più semplicemente, non c’è abbastanza tempo nei nostri giorni da adulti lavoratori per farsi venire un’idea e mettere insieme costumi decenti. Quindi si inizia a pensare al Carnevale in modo un po’ diverso, si comincia a chiedersi cosa significhi veramente e da dove venga.
Gli storici sono tutti d’accordo sul fatto che il Carnevale sia tipicamente associato al calendario cattolico, stretto com’è tra Natale e Quaresima, ma che le sue radici siano molto più antiche. Vedete, il mese di febbraio, quando il più delle volte si svolge il Carnevale, era dedicato alla pulizia spirituale e alla purificazione.
I Romani e gli Etruschi prima di loro, consideravano questo periodo dell’anno un momento di passaggio tra le stagioni e quindi un momento perfetto per entrare in contatto con i morti e l’Altromondo. Per non rimanere mai senza una festa, i nostri antenati latini avevano anche i Lupercalia nello stesso periodo, una festa per onorare la fertilità. Tuttavia era mentre elogiavano Saturno, dio dell’età dell’oro, che Roma ci ha davvero offerto il primo sguardo sul mondo del Carnevale: i Saturnali, le feste di Saturno, celebravano il suo regno dell’abbondanza facendo baldoria nei banchetti, balli e sovvertendo temporaneamente le regole canoniche e quotidiane: non diversamente dalle celebrazioni del Carnevale di oggi, quando “ogni scherzo vale”, ogni trucco era permesso.
Per molti versi, il Carnevale dei cattolici, così legato al successivo periodo di penitenza e purificazione della Quaresima, ricorda la necessità di “lasciarsi andare” momentaneamente e di rifocalizzarsi prima dell’intenso periodo di meditazione e riflessione spirituale che verrà. E così, il Carnevale ha mantenuto la sua anima e la sua essenza, nonostante il passare dei secoli e delle religioni nella penisola.
Oggi il nostro Carnevale, quello che più rispecchia le tradizioni, i colori e il patrimonio artistico italiano, è certamente quello delle Maschere. Le Maschere, quell’insieme di figure regionali, ognuna associata a un abito specifico e a un particolare insieme di caratteristiche morali e personali, sono il vero e autentico volto del Carnevale italiano.
Figlie dei bei tempi barocchi della Commedia dell’Arte, le Maschere sono più che rappresentazioni dei difetti stereotipati della gente o degli abitanti più tipici di una regione, sono il cuore stesso della festa. Nonostante il tempo che passa e le tendenze che cambiano, rimangono popolari, centrali in ogni parata: è improbabile che vengano eseguite senza che neanche una di loro partecipi.
La ragione sta dietro ai loro legami con l’arte e il teatro del Paese, per quanto importanti e belle possano essere: le nostre Maschere rispecchiano i nostri difetti, i nostri punti di forza, le nostre cadute e, una volta all’anno, ci permettono di guardarli con un po’ più di umorismo.
Arlecchino, con la sua eterna necessità di ingannare e beffare gli altri, la sua affascinante e civettuola fidanzata Colombina, spensierata e disinvolta, o Balanzone, la perfetta incarnazione di alcuni tipi di intellettuali che credono di essere gli unici ad aver letto più di una versione Reader Digest di Shakespeare, ognuno di essi è, anche se in una parte infinitesimale, dentro di noi.
Quando li vediamo, con i loro eccessi e le loro idiosincrasie, riconosciamo in loro una briciola di noi e, ahimè, sorridiamo al paragone, imparando a non prenderci troppo sul serio tutto il tempo. Quanto è immensamente importante, in un mondo fatto di doveri e ingiuste autocelebrazioni, riconoscere con un tocco di spensieratezza che non siamo perfetti?
È così. Ecco perché le nostre amate Maschere in Italia sono ancora care ai nostri cuori, un paio di secoli dopo che il Teatro dell’Arte è andato fuori moda diventando poco più che un’incarnazione del periodo delle arti dello spettacolo: è perché ci rispecchiamo in loro, difetti e non, e capiamo subito che dobbiamo essere un po’ meno pomposi, ma anche un po’ meno severi con noi stessi.
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