(Ph Stuart Meade da Dreamstime.com)

Nell’ultimo decennio è scomparso un campo di grano su cinque con la perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati ed effetti dirompenti sull’economia, sull’occupazione e sull’ambiente.

Per la trebbiatura 2019, secondo una prima stima dell’associazione dei coltivatori Coldiretti, si prevede un raccolto di quasi 7 miliardi di chili di grano, coltivati su oltre 1,8 milioni di ettari, rispetto ai circa 2,3 milioni di un decennio fa. Se i terreni coltivati calano, si registra però in controtendenza un boom della coltivazione di grani antichi che nel giro di due anni hanno visto moltiplicarsi per sei le superfici coltivate, passando dai 1000 ettari del 2017 ai 6000 attuali, trainato dal crescente interesse per la pasta 100% italiana e di qualità.

Un esempio è il grano Senatore Cappelli, ma da Nord a Sud sono state recuperate tante altre varietà, dalla Timilia al Saragoilla, dal gentil Rosso al Farro dicocco e monococco, dal Russello al Burattata.
Un lavoro di valorizzazione importante non solo dal punto di vista economico ma anche ambientale poiché questi tipi di grano antico sono rustici, capaci di sopravvivere in condizioni ambientali ostili, poveri di nutrienti e di acqua con un limitato utilizzo di agrofarmaci.

Un lavoro che rischia di essere vanificato dai bassi prezzi riconosciuti ai coltivatori a causa delle speculazioni e delle importazioni dall’estero di prodotti che non rispettano le stesse regole di sicurezza alimentare e ambientale vigenti nel nostro Paese.

Dopo l’approvazione dell’accordo di libero scambio con il Canada (Ceta) nei primi tre mesi del 2019 il Canada è risultato il primo fornitore di grano duro dell’Italia con un aumento di 600 volte delle importazioni di prodotto trattato con l’erbicida glifosato in preraccolta, secondo modalità vietate sul territorio nazionale dove la maturazione avviene grazie al sole.
Una situazione che – denuncia la Coldiretti – mette in pericolo la vita di oltre trecentomila aziende agricole che coltivano grano in aree interne senza alternative produttive e per questo a rischio desertificazione.

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