Al terzo libro sta già lavorando. Non è un sogno nel cassetto. La passione per la scrittura è ormai diventata uno strumento di espressione emotiva, una ricerca costante con cui rielaborare anche parte della propria esperienza di vita. Non è un caso dunque, che la scrittura di Nicola Bottacin Brownson scivoli via veloce evitando lunghe spiegazioni o dettagliate descrizioni. Come si voltano rapidamente le pagine, così scorre in fretta la storia al centro del racconto. Il suo modo di raccontare è per emozioni. Che poi è un modo con cui dire che adotta un linguaggio universale in cui chiunque può ritrovarsi, dato che non c’è nulla di immaginario o surreale. Anzi, l’intento della scrittrice è esattamente opposto: “Voglio che i lettori si riconoscano in quello che scrivo”.

 
Nata a Padova, dove si è laureata in Lettere, insegnante a Redondo Beach, sposata e mamma di due bambine, vive da una dozzina di anni in California. Nella scrittura è rimasta italiana. La sua è una scelta esplicita, legata all’estremamente ampia possibilità espressiva che offre la lingua materna rispetto all’inglese. Un vocabolario, un ventaglio di significati, una ricchezza multistrato che serve a creare quella che chiama la “musica tra le parole”, un’armonia orecchiabile. E per questa ricerca di contenuti e sensazioni linguistiche, il libro andrebbe letto lentamente per assaporarne i colori, le sfumature, l’individuazione della parola giusta al posto giusto che poi le impedisce, una volta messa nero su bianco, di accordare variazioni, di correggere la prima versione proprio per non perdere “il ritmo della frase”.
 
Ha pubblicato per Alcyone “A Bientôt”, già presentato all’Istituto di Cultura Italiana a Los Angeles, che segue dopo una gestazione di tre anni, l’opera prima “35 settimane alla casa verde” edita da Il Prato. È la storia di Olivia che ha scelto di lasciare la sua amata Padova per seguire il marito in America dove vive felice e innamorata alle prese come ogni mamma, con i mille impegni dei figli, della casa e della vita quotidiana. Fino a quando, un giorno, il telefono squilla. Dall’altro capo del mondo la voce della sorella, incerta e sconvolta, che dà inizio ad una serie di eventi che cambieranno per sempre la vita di Olivia. Riunioni familiari, ricordi sopiti e una sconvolgente rivelazione riguardante il padre, morto tragicamente tanti anni prima.
 
In altre parole è l’inizio di un ritorno ma anche l’occasione per la ricerca del proprio passato e di un significato vitale per la propria esistenza. “La memoria resta. Puoi illuderti di aver dimenticato  il passato – spiega Nicola Bottacin Brownson – ma prima o poi devi affrontare i fantasmi della memoria”.
 
La storia, in parte anche autobiografica, diventa uno stratagemma per riflettere su se stessi, sul modo in cui si affronta un cambiamento, sulla propria storia, sui momenti di dolore che, in fondo, sono parte di noi. “I fantasmi – dice la scrittrice – spesso sono anche ricordi che ci cullano a cui ci affezioniamo e se li cancelli, li dimentichi, è come se tradissi qualcosa”. L’Italo-Americano l’ha intervistata:
 
Come mai è qua?
Sono qui a Los Angeles partendo da Padova perché la vita non si prevede, il destino ti acchiappa quando meno te lo aspetti. In realtà dovevo andare a Roma e invece sono approdata un po’ più lontano.
 
Le manca l’Italia o stare a Los Angeles aiuta a metabolizzare la realtà, la vita, la memoria, il passato?
Un pò è stato così. Ci sono episodi della vita, soprattutto traumatici, che ci cambiano, che ci portano a crescere, o viceversa a non voler fare i conti col passato, a scappare. A volte però, quando si è lontani, si vedono le cose più chiaramente. Così l’Italia è diventata l’universo ideale, la memoria perfetta, la vedo più chiaramente da qui che non stando lì. Lo stesso con questa storia: sono riuscita a raccontarla meglio da qui.
 
Parla di fantasmi, dei traumi grandi e piccoli che ci segnano.
I fantasmi sono i miei, ma potrebbero anche essere quelli del lettore. L’idea è che tutti abbiamo un passato che, per quanto lontano andiamo, resta sempre con noi e prima o poi si può far rivedere. E quando succede, dobbiamo fare i conti con lui.
 
La chiave di volta di “A Bientôt” sono i sogni. Servono per sopravvivere?
I sogni sono la mia passione. Mi piace studiarli, mi piace il fatto che siano una finestra sull’anima per quanto non siano mai presi molto seriamente. Sono sempre relegati alle dicerie, a cose un pò incredibili come leggere la mano. Invece secondo me i sogni sono qualcosa che ci dicono cose importanti, che ci parlano per metafore. Anche per questo il libro si chiude con un sogno ma è anche costruito come un sogno. Martellante, immaginifico.
 
Il sogno è tra l’altro un anello di congiunzione con il tuo prossimo lavoro.
Il prossimo libro è ancora di più legato ai sogni. Ma non solo. Una delle mie ultime passioni è la fisica quantistica, l’idea della “superposition”, della sovrapposizione delle molecole, di un elettrone che può essere un’onda, ma anche una particella. Se le nostre particelle fondamentali non esistono, noi non esistiamo.
 
La copertina del libro è una metafora del viaggio dentro di sè, di un ritorno. Anche il suo modo di scrivere ricalca un pò questa ricerca emozionale.
Non ho mai sopportato le scritture alla Hemingway, i troppi dettagli. Mi piace scrivere come un sogno: può essere vago quello che vedi intorno a te, ma basta un dettaglio, una sedia rossa, un bicchiere, che si crea l’emozione. E tutto il resto lo mette il lettore.

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