Dioniso per i Greci, Bacco per i Romani. Il dio del vino per gli Etruschi era Fufluns: giovane, cinto di pampini, con un’anfora in mano, una coppa (il «kantharos») o un tirso ovvero un lungo bastone nodoso sormontato da un viluppo d’edera. Figlio di Tinia, la più importante divinità etrusca più o meno equivalente a Zeus o Giove, e Samia la madre associata alla terra. Il popolo che per 6 secoli principalmente abitò città-stato nelle odierne Toscana, Lazio e Umbria settentrionali, pose sotto la sua protezione gli alberi, la fecondità, il vino e il delirio mistico. Il suo nome deriva da «puple», germoglio. I suoi sacerdoti e sacerdotesse custodivano i saperi legati alla coltivazione della vite, alla potatura e alle pratiche per preservare nel tempo i vigneti. Il suo regno era il simposio, quella parte del banchetto nella quale i commensali, dopo aver mangiato nel banchetto, bevevano insieme, cantavano carmi conviviali, recitavano poesie, assistevano a intrattenimenti e conversavano.
A Castagneto Carducci, borgo toscano nella costa degli Etruschi con una splendida vista sopra il mare che bagna l’isola d’Elba, la mostra “Nel segno di Fufluns. Il vino degli Etruschi’ racconta le origini della storia del vino.
Dall’evoluzione delle primitive tecniche di coltivazione alla selezione delle varietà di vite, dalla produzione alla conserva- zione, dalle modalità di consumo al commercio, dai rituali sociali e funerari alle forme di rappresentazione individuale o collettiva, l’uva, il vino e il bere insieme, oggi sono un importante indicatore della cultura, delle credenze, dell’economia e della struttura sociale delle antiche comunità del Mediterraneo.
Gli Etruschi legarono al vino molti aspetti della vita quotidiana: fu elemento di distinzione e ostentazione della ricchezza da parte dei membri eminenti della società, componente sacra nell’ideologia funeraria e nella ritualità, ingrediente centrale nel costume del convivio.
Il tema della mostra è il rap- porto tra gli Etruschi e il vino raccontato attraverso oggetti di uso quotidiano provenienti dalle antiche Populonia (il toponimo Pupluna/Pufluna/Fufluna, rac- conta che fu città sacra al dio del vino), Volterra e Vetulonia.
Ce ne sono di bellissimi, come le lucide coppe che si usavano nei banchetti, i kantharos, che mostrano la finezza del bùcchero, la ceramica sottile e leggerissima che una cottura particolare rendeva nera ma brillante come il metallo. Altri sono rivelatori del costume come gli affascinanti ritratti in pietra di una coppia che richiama il più famoso Sarcofago degli sposi di Cerveteri: svela come al banchetto etrusco potessero partecipare anche le mogli, non ammesse nel rituale greco. Ma la donna, nel mondo etrusco, beneficiava di una considerazione civile e sociale ben diversa dal ruolo subalterno greco-romano. Al banchetto prendevano parte coppie sposate, ritratte nei sarcofagi o sugli affreschi, come simbolo di unità familiare. Altri mostrano il «Kottabos», l’antico gioco praticato nei simposi e dedicato al piacere del bere: consisteva nel colpire un bersaglio, un piatto o un vaso, con il vino rimasto sul fondo della coppa.
«Possiamo ammirare 16 meravigliose coppe che raccontano il rituale sociale di una comunità aristocratica. Le abbiamo restaurate e ci raccontano che mentre Romolo libava con il latte, Numa Pompilio, il secondo dei 7 re di Roma arrivava da una civiltà che aveva già una sviluppatissima cultura del vino tanto che a lui si deve l’introduzione del vino nei rituali conviviali romani» racconta, ricordando che gli Etruschi abitarono l’area toscana dal IX agli inizi del III secolo a.C., Carolina Megale archeologa dell’Università di Firenze e direttrice del Museo Etrusco di Populonia che ha curato la mostra con Edina Regoli, direttrice del Museo civico archeologico di Rosignano Marittimo, e Andrea Zifferero dell’Università di Siena.
In alto le 16 coppe in bucchero nero rinvenute nella Casa del Re sull’acropoli di Populonia (Ph. B. Minafra)
Per comprendere il senso dell’esposizione e il racconto che da Fufluns si sposta sulla società etrusca occorre affidarsi ai colori. «L’allestimento è stato pensato a partire dalla scelta della location: un’antica cantina nel centro di Castagneto Carducci di proprietà della famiglia che gestisce la casa museo del poeta Giosuè Carducci che qui visse. Negli spazi in cui venivano siste-mate le botti per l’invecchiamento, ci sono le teche che contengono i reperti, posizionati per raccontare come gli Etruschi preparavano e servivano il vino valorizzando gli antichi manufatti realizzati con il bucchero”.
L’architetto Erica Foggi, curatrice dell’allestimento, spiega che “i pannelli sono stati pensati per accompagnare cromaticamente il visitatore nella fruizione dell’esposizione. All’inizio sono rossi come il vino che si preparava, si serviva e si beveva, e molto curiosi sono reperti come la grattugia usata per aggiungere al vino spezie, radici o, come succedeva nel mondo greco, forse anche il formaggio. Poi è stato scelto il verde per il pannello che spiega le tecniche di coltivazione con le illustrazioni del disegnatore livornese Alessandro Balluchi e infine il blu perché il commercio del vino avveniva soprattutto via mare e sui suoi fondali sono stati trovate anfore e dolie. In mostra ce ne sono alcune recuperate di fronte alla costa livornese. Nell’ultima parte – continua Foggi – abbiamo realizzato un triclinio, una stanza a imitazione di quelle in cui veniva bevuto il vino convivialmente, dove i visitatori possono sedersi e assistere alla proiezione di un video esplicativo appositamente realizzato. In alcune occasioni si sono tenute degustazioni di vini locali sulla terrazza a cui si accede dalla mostra e che offre una splendida vista sul mare e sulla vallata ai piedi di Castagneto Carducci”.
Nella mostra sono esposti i cinerari provenienti dalle necropoli degli inizi dell’età del Ferro di Bolgheri e Piano delle Granate a Baratti; una selezione di tazze appena restaurate rinvenute nella Casa del Re sull’acropoli di Populonia; il corredo del principe etrusco di Poggio Tondo a Pian d’Alma con le coppe su alto piede e il grande kantharos (coppa/cratere) monumentale; la rara tazza/attingitoio con iscrizione di dono conservata al museo della cantina “Rocca di Frassinello” a Gavorrano; i buccheri e i bronzi forgiati e utilizzati per consumare il vino dal Museo Civico Archeologico Palazzo Bombardieri di Rosignano; i coperchi di urne cinerarie con defunto e defunta distesi a banchetto dal Museo etrusco di Volterra; un prezioso corredo funerario costituito da oggetti da simposio rinvenuto a Baratti e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze; la straordinaria cimasa di kottabos in bronzo raffigurante un satiro danzante dal Museo Archeologico di Vetulonia; gli arredi in piombo dal Museo di Populonia Collezione Gasparri.
L’esposizione di Castagneto Carducci, nel cui territorio si snoda la Strada del Vino in cui vengono prodotti alcuni tra i bianchi e i rossi più apprezzati al mondo, come il Sassicaia, costituisce l’epicentro della “rete di Fufluns”, un percorso narrativo diffuso fra la costa e l’entroterra toscano, che coinvolge i musei partner e prestatori della mostra: il Museo di storia naturale del Mediterraneo di Livorno, il Civico archeologico Palazzo Bombardieri di Rosignano, il Museo etrusco Guarnacci di Volterra, il Museo civico archeologico di Cecina, il Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri, il Museo archeologico del Territorio di Populonia a Piombino, il Centro di documentazione Rocca di Frassinello a Gavorrano, il Centro di documentazione etruschi dei Musei di Scarlino, il Museo civico archeologico Falchi di Vetulonia e il Museo archeologico nazionale di Firenze.
Tutti insieme sono tessere che compongono il misterioso puzzle etrusco, il racconto di una civiltà che assimilandosi con quella romana finì per scomparire ma anche comporre le basi della cultura italica. Un tour in questi luoghi, tra le tracce di un passato non ancora non tutto decifrato e noto, svela necropoli, tombe a pozzo tra gli uliveti o a tumulo immerse nella macchia mediterranea, corredi funebri ma anche strumenti della sviluppatissima attività metallurgica, acropoli mozzafiato sul blu del Tirreno, teche piene di capolavori di oreficeria, vasi, carri, elmi, schinieri, scudi, lance, statue e monete d’oro e d’argento, parchi archeologici, antiche cinte murarie.
Ma come si coltivava l’uva e come si beveva il vino etrusco? Gli Etruschi coltivarono la vite selvatica come la vedevano crescere nei boschi dove cresceva aggrappandosi agli alberi. È possibile che avessero adottato questo sistema unico e distintivo, “a sostegno vivo”, per allontanare la vite dal suolo affinchè l’umidità non ne danneggiasse i frutti. La tecnica venne perfezionata con l’introduzione della potatura con pennati e falcetti metallici che permetteranno una migliore resa. La pigiatura avveniva in vasche, solitamente due e comunicanti, scavate nella roccia. Dopo aver lasciato riposare le vinacce e il mosto per 24/48 ore, il liquido passava nella vasca sottostante. I sistemi più primitivi di torchi si basavano sullo schiacciamento con pietre o pezzi di legno appoggiati sopra alle vinacce. Il mosto/vino veniva poi raccolto in grandi orci (dolia o pithoi), dove si completava la fermentazione ed era conservato il vino. Il commercio del vino etrusco è documentato a partire dal VII secolo a.C. Le anfore vinarie più diffuse furono prodotte nei centri dell’Etruria meridionale, nei territori di Vulci e Cerveteri. Sono attestate lungo le coste tirreniche fino alla Languedoc (Francia meridionale e Spagna) e alla Sardegna.
E com’era quel vino, come si consumava? In antichità, era molto alcolico e concentrato e si beveva diluito con acqua, perché era sconveniente perdere il controllo in società. Veniva aromatizzato e addolcito per coprire i difetti dovuti alle limitate tecniche produttive e di conservazione. Dal cratere, dove era mesco- lato con acqua, era attinto con mestoli come il «kyathos», di foggia etrusca, a metà fra una coppa per bere e una per attingere. Era versato nelle brocche di servizio («oinochoe») o nelle coppe dei commensali e filtrato con un colino, per eliminarne le torbidità. Per bere si usavano coppe in ceramica come il calice semplice o «thavna». Una forma importata dalla Grecia era la kylix (in etrusco «culichna»). Con manici più alti e tipicamente etrusco era il «kantharos» o «zavena».