A cavallo dell’Equatore, sulla costa orientale dell’Africa che si affaccia sull’Oceano Indiano, il Kenya è un mosaico di catene montuose e ghiacciai perenni, scarpate e vulcani, colline granitiche e paesaggi desertici, immense savane e altipiani, barriere coralline e isolotti.

Questa splendida terra è diventata la patria d’adozione di Maria Boccazzi, famosa in tutto il mondo come Kuki Gallmann, d’origine veneta e autrice di cinque libri autobiografici sul Kenya subito diventati bestseller. A partire da Sognavo l’Africa (1991) –  testo che ha ispirato l’omonimo film con Kim Basinger –, e continuando con La notte dei leoni, Notti africane e Elefanti in giardino, la scrittrice è stata ininterrottamente ispirata dall’Africa, ritenuta la Grande Madre del genere umano.

 
Fenicotteri rosa, pellicani e cormorani, leoni e leopardi, bufali, ippopotami ed impala, popolano una natura incontaminata in cui laghi salati, campi di granturco e frumento, piantagioni di tè e caffè si alternano alle acacie e agli alberi di pepe.

Kuki Gallmann

 
La dimora di Kuki è parte di un’immensa proprietà –  la più grande del Kenya –  di 100.000 acri (circa 360 chilometri quadrati), situata a Ol Ari Nyiro, nella regione di Laikipia, che include una zona di savana, una di foresta, sessantadue laghi artificiali e uno spettacolare altipiano che si affaccia sulla Rift Valley. Trasformata da Kuki, alla morte del marito Paolo e del figlio Emanuele, in riserva naturale, questa tenuta vanta una flora ricchissima – ulivi selvatici centenari, leleshwa (comunemente detta canfora) e carissa –  ed una fauna altrettanto variegata (oltre 4000 bufali, 250 elefanti, più di 100 leoni, rinoceronti, gazzelle, facoceri, scimmie, conigli, lepri e dik dik). In questa straordinaria terra nessun albero è stato mai abbattuto e ogni cosa è come all’inizio dei tempi – non a caso si tratta dello stesso luogo in cui sono stati rinvenuti i più antichi resti umani.
 
Per incontrare la celebre scrittrice mi sono addentrata, durante un percorso di sei ore in auto lungo strade sconnesse o sterrate, tra le acacie e i fichi di una natura selvaggia in cui le gazzelle e gli gnu brucano l’erba indisturbati e i termitai sembrano piccoli grattacieli. Le tribù Masai abitano alcuni di questi luoghi da secoli e splendidi guerrieri vestiti di rosso si intravvedono poco lontano dalle greggi di pecore che pascolano tra i campi. Arrivata dinanzi al cancello della tenuta, ho impiegato quasi un’ora per raggiungere la casa che, nel cuore della proprietà, è confortevole e in tipico stile africano, con il caratteristico legno di bosia lavorato dai Masai.
Durante i pochi giorni trascorsi come ospite di Kuki, ho potuto vivere il Paradiso e l’Inferno. Dopo il battesimo dell’acqua alla sorgente calda di Mukutan, regno del serpente boa, a 1700 metri d’altezza, ho sperimentato, a Makenna Hills, tra le cosiddette “colline delle capre perdute”, il calore del fuoco: dapprima quello del caldo braciere acceso sotto un infinito cielo stellato – sono visibili infatti entrambi gli emisferi – , poi quello malefico di un immenso incendio doloso appiccato a Ol Ari Nyiro dai bracconieri che continuamente tentano di intimidire la scrittrice e catturare gli elefanti appropriandosi delle loro zanne, più preziose dell’oro.
 
Ho avuto modo di dialogare a lungo con Kuki e, quello che segue, è il resoconto di un’intervista esclusiva.
 
L’Africa è stata una scelta consapevole o un prezzo da pagare per ottenere la felicità e per seguire Paolo, l’uomo della tua vita?
L’Africa è stata una mia scelta, prima con Paolo e poi senza Paolo. Quando sono arrivata qui con lui, abbiamo portato le nostre rispettive famiglie. Volevamo fare una vita diversa da quella che avremmo potuto avere in Italia, dove tutto era molto più convenzionale. 
Volevamo sperimentare qualcosa di nuovo. Entrambi pensavamo che in Kenya avremmo vissuto un’esistenza libera dal bagaglio di pesanti restrizioni. Abbiamo avuto la fortuna di poter trovare questo fantastico pezzo d’Africa che è stato centrale per la mia decisione di rimanere dopo la morte di Paolo.
 
Ho deciso di restare per un senso di dovere, per il profondo rispetto che nutro per questo luogo. Se non fossi ancora qui e non avessi adottato misure preventive per proteggerlo, tutto sarebbe stato certamente distrutto, visto che un tempo ci si poteva spartire la terra senza prima accertarsi adeguatamente di cosa essa fosse in grado di produrre. Utilizzare un luogo senza rispettare le caratteristiche del suo ecosistema può causare problemi talmente gravi da farne derivare un rapido deterioramento. Bisogna seguire le indicazioni di chi nel passato, vivendo a contatto con la natura, ne conosceva limiti e pregi, ma soprattutto non ne abusava. I frutti, le piante, gli animali venivano sfruttati, certo, ma in modo equilibrato, preservandone la sopravvivenza e la biodiversità.
 
Lo stesso destino dell’Africa è toccato all’Europa ma, a differenza del Vecchio Continente, qui la situazione è precipitata a causa del colonialismo, che ha imposto abitudini inaccettabili per il luogo e provocato danni irrevocabili. Questa è stata la condanna dell’Africa, terra affetta dalla costante ossessione di dover imitare l’Occidente. Cosa impossibile se si intende tutelare la natura incontaminata, perchè se ciò che, creato da Madre Natura, viene distrutto, non può più essere ricostruito.
 
Ci troviamo dinanzi al perenne conflitto fra il naturale e l’artificiale, in cui di solito è l’artificiale a vincere. Ciò vale anche per l’approccio nei confronti della flora e della fauna. Gli uomini pensano erroneamente di aver bisogno solo di animali domestici e piante coltivate, ma non è così. Bisogna solo avere l’umiltà, la curiosità e l’immaginazione per pensare a qualcosa di diverso che permetta di produrre ricchezza ma che sia in armonia con le tradizioni del luogo.
 
Pensando alla tua esperienza in Africa e alla tua carriera di scrittrice, può sorgere spontaneo un parallelismo con Karen Blixen, celebre autrice di racconti e romanzi che decise, nel 1913, di acquistare una piantagione di caffè ai piedi delle colline di N’Gong, vicino a Nairobi, e di  trasferirvisi. Credi che abbiate qualcosa in comune?
Siamo arrivate entrambe dall’Europa – lei era danese –, abbiamo scritto dei libri e subìto delle perdite affettive dopo il nostro trasferimento in Africa – io mio marito e mio figlio, lei il fidanzato –, ma si limita a questo ciò che abbiamo in comune. Le nostre vite sono state simili solo superficialmente e, non a caso, dopo la morte del suo uomo, lei è tornata indietro, in Europa, io sono rimasta.
 
La creatività e la fantasia che ti contraddistinguono e che ti hanno spinta a descrivere così bene ogni dettaglio di questa terra, ti hanno portata anche a credere in un mondo migliore? Qual è esattamente il messaggio che hai deciso di trasmettere al mondo?
Per scoprire tutto il Bello dell’Africa e del mondo è indispensabile rivolgere la propria attenzione e i propri sensi alla Natura. La Natura ci parla ed uno dei gravi difetti dell’umanità sta nell’aver dimenticato come ascoltarla. Soprattutto chi riveste ruoli di potere, chi si trova ad essere un’icona o un punto di riferimento per la società dovrebbe cercare di rapportarsi all’Ambiente, al mondo naturale, con umiltà e sollecitudine, apprendendone le lezioni. Io, in fondo, non ho fatto niente di speciale: ho solo fatto in modo che Ol Ari Nyiro potesse tornare ad essere ciò che era sempre stato, prima che dall’esterno, le banche e le nuove tecniche agricole e di allevamento, ne invadessero l’ecosistema. Ho semplicemente riportato questo luogo alla sua originaria armonia, ricostituendo un tesoro naturale. Anche costruendo la mia dimora ho tentato di interpretare lo spirito del luogo: nel rispetto dell’ambiente, utilizzando materiali naturali e creando degli spazi vivibili per me ma invisibili all’esterno; ho cercato di creare una forma di architettura organica in cui l’unica cosa ad avere risalto fosse il paesaggio. Ascoltare la Natura e rispettarla, questo è il mio messaggio.
 
Qual è stato e qual è il tuo ruolo qui in Kenya?
Non si può agire positivamente per un luogo senza prendere in considerazione la comunità che in esso vive. Gli abitanti di questa terra – sempre in aumento – hanno particolari problemi, necessità e desideri che io non ho fatto altro che interpretare, entrando con questa gente in rapporto diretto. Per quanto possibile, ho cercato di andare incontro ai loro bisogni, facendo costruire una clinica, in cui le donne – sottoposte da bambine alla barbara pratica dell’infibulazione – potessero mettere al mondo i propri bambini senza pericolo; organizzando corsi scolastici, alcuni specificatamente per le donne Pokot, utili a soddisfare esigenze pratiche e quotidiane, come firmare con il proprio nome, leggere i cartelli stradali, riconoscere le malattie infantili o cucinare il cibo in modo più igienico. Un altro corso è stato rivolto ai giovani a rischio, o già divenuti bracconieri, per rieducarli e farli diventare modelli di comportamento per i loro coetanei; insegnando loro le arti acrobatiche, la danza, i canti tradizionali indigeni e inserendo questo repertorio folclorico e popolare in un contesto più moderno. Ho fatto in modo che potessero diventare degli artisti, dimostrando alla loro gente che esiste una strada etica e corretta per realizzarsi. Nel 2008 ho dato inizio anche ad un progetto sportivo, durante il quale, mettendo insieme migliaia di giovani di diverse tribù – che di solito si incontrano solo in contesti di conflitto –, ho permesso loro di “combattere”, ma con una forma pacifica di competizione che consentisse loro di imparare ad accettare le sconfitte come le vittorie.
 
Un altro progetto molto importante per il futuro dell’Africa è quello del “Family planning”: la popolazione sta crescendo a dismisura e il Kenya conta già 60 milioni di abitanti, una cifra che in pochi anni diverrà assolutamente insostenibile. Quello della sovrappopolazione è un problema mondiale, un problema di risorse: è come se finora avessimo vissuto “a credito”, accumulando debiti nei confronti del Pianeta, debiti che prima o poi dovranno essere pagati con beni che non possediamo. 
 
Abbiamo sfruttato a dismisura acqua, ossigeno e tutto ciò che la Natura ci ha offerto, determinando la reazione inevitabile del Pianeta stesso (basti pensare al riscaldamento globale e ai vari cambiamenti climatici che stanno mietendo vittime soprattutto nei Paesi meno sviluppati). E mentre in Africa si susseguono siccità e carestie, a causa delle quali milioni di persone muoiono di fame, paradossalmente, in altre zone del mondo, tonnellate di cibo vengono gettate via perché, se venissero immesse nel mercato, i prezzi crollerebbero.
 
Una gestione globale sarebbe la soluzione più adeguata per distribuire equamente le risorse tra tutti gli abitanti del pianeta. Pensiamo ad esempio alla Cina. Cresce sempre di più, sta consumando più del 40 per cento delle risorse mondiali e così continuerà incrementando ancora i propri consumi in maniera proporzionale all’aumento della popolazione… è una ricetta per il disastro, visto che la maggioranza delle materie prime di cui la Cina ha bisogno proviene dall’Africa. Ettari di foreste sono stati già distrutti per la costruzione di autostrade che serviranno a raggiungere luoghi in cui, solo presumibilmente, si trovano giacimenti minerari. Insomma, siamo sull’orlo di un precipizio.
 
Quello che io posso fare qui a Ol Ari Nyiro è promuovere ciò che di positivo c’è nella storia umana: l’arte in tutte le sue forme e tradizioni. Tra le tradizioni più importanti dell’Africa c’è certamente lo sciamanesimo: lo sciamano ha un forte legame con la Madre Terra, poiché è colui che sa leggere le stelle, sa prevedere il clima e conosce rimedi naturali per la cura delle malattie.
 
L’Africa ha molto da insegnare a chi sa porgere il proprio orecchio per ascoltarla. Tutti i programmi sinora applicati per l’aiuto di questo continente sono stati fallimentari perché creati dall’Occidente per l’Occidente. I paesi occidentali devono, invece, trarre dall’Africa la saggezza, il rispetto per la famiglia e per l’ambiente.
 
A quale progetto narrativo ti stai dedicando attualmente?
Tutto quello che scrivo è completamente autobiografico e così è anche la mia ultima opera, che è quasi completa ed è un resoconto di tutto ciò che è accaduto da Sognavo l’Africa in poi.
 
Tu hai trascorso la giovinezza in Veneto. Ti manca l’Italia?
No, non mi manca, se mi mancasse ci tornerei.
Senti di avere un ruolo importante per il mondo, non solo per il Kenya?
Penso che ciascuno di noi sia nato per lasciare un segno sulla Terra. Prima di oltrepassare la soglia dell’Aldilà ciascuno di noi dovrebbe poter testimoniare di aver lasciato un’impronta positiva. È il motivo della vita. Non posso ancora giudicare ciò che ho compiuto nella mia esistenza, ma ogni azione deve essere volta al miglioramento, esattamente come nella filosofia orientale: nonostante la teoria della reincarnazione non permetta di ricordare le proprie vite precedenti, ogni atto dell’esistenza deve volgere alla purificazione del proprio Kharma.
 
Penso che l’azione migliore da me compiuta sino ad oggi sia stata aver tentato di preservare la natura e la biodiversità di Ol Ari Nyiro, un’azione la cui traccia rimarrà anche dopo la mia morte, un’azione, quindi, di valore incalcolabile.
 
L’intervista termina qui e, come Kuki in Sognavo l’Africa, «nell’ora del giorno in cui l’erba della savana si vena d’argento, e pallido oro orla i profili delle colline» posso volgere lo sguardo al tramonto e il mio orecchio all’Africa, cogliendone la voce più profonda.
 

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