Le rocce della baia di La Jolla, San Diego, California, sono grandi e acuminate, spuntano tra prati e cale di sabbia grossa, fanno da corona alla siesta di leoni di mare puzzolenti e mitologici spaparanzati sulla riva; il vento che spinge onde e surfisti porta, con il lezzo primordiale dei seals, zaffate di ibiscus e agapanto e odori minerali e freschi di salsedine e conchiglie, qualcosa di amniotico.
 
Tra queste rocce non è raro incontrare Rabindra Sarkar, the rock star of San Diego, impegnato a mettere in equilibrio pietre che non rotolano mai. Rabi è un maestro Reiki, e compone pile di rocce miracolosamente in piedi con molta più destrezza e facilità di chi costruisce castelli di sabbia.
 
La pratica spirituale, dice, e la pace che ne consegue, la convinzione di sentirsi una cosa sola con gli altri e con tutto ciò che lo circonda, gli dona la telepatia col mondo necessaria a trovare l’allineamento apparentemente magico delle pietre. “Se sgombri la mente puoi fare qualsiasi cosa”. L’energia, spiega, gli viene dalla preghiera a Dio, comunque lo si chiami, perché tanto “uno ce n’è, seppure con troppi nomi”. Tutto qui.
  Bilanciare pazientemente gli elementi: ecco lo stone balacing

  Bilanciare pazientemente gli elementi: ecco lo stone balacing

 
Con un’aria perennemente tra il disarmante e il divertito, Rabi, da qualche anno costella la baia della sunny San Diego, appena oltre il confine con un Messico molto raggiante e pochissimo in pace, dei suoi incredibili totem che fa e disfa per la gioia e lo stupore di indigeni e turisti che fanno a gara per caricarlo su youtube; altra location sandieghesi delle creazioni di Rabindra, sempre lambita da pacifissimo oceano, è il Seaport Village, quasi la versione pop di un villaggio di pescatori (e in effetti a progettarlo fu anche una società del gruppo Disney che architettò per gli edifici del waterfront molte ambientazioni diverse: vittoriano, nuovo Messico, vecchio West e Cape Cod). 
 
Tra gabbiani che passeggiano sfrontati come ballerini di musical e carousel di cavalli che neanche Mary Poppins ha mai visto così vividi, proprio a pochi metri dal sito dell’enorme statua di un marinaio che bacia un’infermiera eretta per il Memorial Day di 5 anni fa (“Resa incondizionata” si intitola) spunta spesso anche Rabindra, ad ammaliare pietre come fossero serpenti. 
 
Emergono dalle sue mani, sembra un tornitore coi vasi. “È indiano, è un uomo spirituale” ci spiegano all’Autorità Portuale di San Diego dove lo considerano di casa, “non usa trucchi, lui sente le pietre”.
Dall’altra parte dell’oceano, sulle sponde di un mare Adriatico che non conosce i grandi mammiferi pacifici e che, più che di ukuleli hawaiani, risuona di eco balcaniche, opera – ma lui preferisce dire gioca – con i sas-si, un collega dorico dell’ignaro Rabindra.
 
Di mistico non ha nulla, e il suo nome è tutto un programma: Carlo Pietrarossi.
Ha preso ad interessarsi alle pietre guardando i bonsai e disponendo quelle giapponesi secondo l’arte del suiseiki; il suo posto preferito  è la baia di Por-tonovo di Ancona, ha cominciato un giorno e non ha più smesso. Tutte le mattine del mondo pratica stone balancing in riva al mare: “è un habitat perfetto, ci sono terra, acqua e aria nel fuoco globale, e stai qua: te la canti, te la conti e te la canti. E si trasmette per contagio”.
 
La materia prima di Carlo, i sassi candidi, polverosi e senza spigoli di Portonovo, è apparentemente meno ostica di quella di Rabindra. Indugia sui ciotoli, li accarezza e li fa muovere cercando un punto di equilibrio “come lavorare col fuso, vedi. Cominci e in pochi istanti ti senti, ti ritrovi solo”.
Deve fare i conti con le do-mande dei passanti, le esclamazioni di meraviglia: ma anche le distrazioni, racconta, fanno parte del gioco di equilibrio, si sommano alla giustapposizione di elementi che poggiano sulla base di tre punti, quella da individuare per cominciare le costruzioni.
 
“È una cosa che riesce bene ai bambini, perchè è un bellissimo gioco. Per alcuni una verità, ma io preferisco non vederla così. È pericoloso credere di avere la verità tra le mani”.
E Carlo Pietrarossi ha individuato nel mondo gli altri giocatori come lui, un paio di cento, e si sono dati appuntamento alla baia Portonovo, fiorita per mezza giornata di sculture quasi cicladiche, per la levigatezza e il candore di quei sassi. 
 
Raduno successivo, in Canada, ad Ottawa, su scenario fluviale, sull’ansa del fiume Ottawa appunto. 
Da quelle parti gioca John Felice Ceprano, che fa cose felliniane assicura Carlo, che il gelo immobilizza in un fermo immagine per tutto l’inverno. 
 
Ogni stoner, impariamo, ha la sua impronta, c’è chi usa solo pietre, chi ammette l’intrusione di pezzi di legno e sostegni naturali, e inserisce lo stone balancing come elemento in più generiche opere di land art.
Poche le donne, che d’equilibrio pure dovrebbero intendersene; esiste anche un manifesto aperto e una comunità di appassionati in espansione.
 
Quando si incontrano ad Ancona i giocatori o artisti, amano praticare sotto un grande scoglio sotto la Baia della Torre che qualcuno chiama il sacrario. È che da lontano sembra un’isola, come aveva già intuito Munari. “E per questo che ci piace” si affretta a puntualizzare Pietrarossi.
 
Però alla domanda su cosa accomuni davvero gli stoner, al di là di genere, nazionalità e stile, risponde senza esitazione “l’aver attraversato momenti di attenzione e sofferenza. Chi si avvicina alle pietre ha sempre pagato pegno”. Con grande pace mette in equilibrio l’ultimo ciotolo mentre onde selvatiche e molto profumate tentano di sabotargli l’opera. A largo passa un surfer, spinge placido la tavola col remo, San Diego non è poi così lontana.

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