Alla vigilia di un evento che avrebbe cambiato le pagine della storia umana, Rocco Petrone non tradiva emozioni: per gli amici della NASA era il “computer con un’anima” e lui, silenziosamente, ne andava fiero. In lui coabitavano inflessibile tenacia, una memoria prodigiosa e un approccio umano verso le grandi imprese dei suoi amici cosmonauti, tutte doti che lo avrebbero portato ai massimi vertici della grandiosa avventura Apollo. E in quel caldo giorno di luglio del 1969, le sue doti sarebbero servite tutte, per trasportare a destinazione i primi uomini sulla Luna.

Il direttore di lancio del programma Apollo, nato nel 1926 ad Amsterdam, vicino a New York, non fu un comprimario di quei giorni gloriosi dell’era spaziale. Petrone rappresenta ancora oggi uno dei “massimi” protagonisti di una disciplina, la cosmonautica, capace di esaltare il progresso umano nelle più ardue sfide con l’Universo.

Figlio terzogenito di un carabiniere nato a Sasso di Castalda (Potenza) emigrato negli Stati Uniti e impiegato nel settore dei trasporti, conobbe in realtà pochissimo suo padre, che morì quando lui aveva solo sei anni. Fu il cugino, arrivato all’incarico di docente universitario a soli 30 anni e che aveva conosciuto quanto lui i patimenti della fame, a intuirne le enormi potenzialità per la matematica e ad indirizzarlo agli studi tecnici. Fu la scelta giusta.

Diplomatosi con ottimi voti Petrone partecipò al concorso per entrare nella prestigiosa accademia militare di West Point vincendo, nonostante il grave handicap delle origini italiane (siamo nel 1943, in piena guerra mondiale), la durissima selezione.

Motivato da un orgoglio familiare che vedeva in lui la rivincita della prima generazione in America, acquistò una nuova identità, vestendo la divisa nonostante la sua innata avversione per il militarismo. Dopo il servizio militare in Germania, Petrone si iscrisse al MIT di Boston per tentare la strada della ricerca spaziale. Affascinato dalle tecnologie aeree e dai missili, ma contrario agli impegni militari, Petrone afferrò al volo l’opportunità di poter lavorare su obiettivi spaziali e in due anni prese la laurea in ingegneria meccanica per poter far parte del progetto “Redstone” e della squadra di Von Braun e Debus, scienziati tedeschi riconvertiti alla cosmologia. “Furono anni indimenticabili. Eravamo tutti amici e tutti convinti – avrebbe commentato in seguito – che mai e poi mai un missile avrebbe potuto portare l’uomo sulla Luna, io per primo”.

Divenuto maggiore, il figlio di immigrati lucani, fu assegnato allo Stato Maggiore a Washington per essere destinato dal presidente John Kennedy al progetto lunare. Per portare un americano sulla Luna entro il 1969, nella squadra di “menti” c’era bisogno di Petrone!

L’ingegnere iniziò la carriera nella NASA nel 1960 lavorando al progetto Saturn presso il Kennedy Space Center. Progettò le rampe di lancio, mise in orbita satelliti e astronavi per migliaia di tonnellate, diresse il lancio di tutti i Saturno e gli Apollo e si guadagnò la fama di duro. Tutti gli anziani tecnici della NASA lo avrebbero ricordato intento a interrogare, uno per uno i suoi 150 tecnici addetti alle manovre, con domande formulate con meticolosa precisione cui bisognava rispondere con altrettante risposte o con il completo riesame del problema.

“Lo chiamavano “Tigre” per i suoi interrogatori – ricorda Tony Reichardt di Air&Space Magazine – ma erano indispensabili. La lista delle operazioni che bisognava eseguire sul solo Modulo lunare per essere sicuri che tutto funzionasse a dovere, era grande quanto il libro della Bibbia e ogni riga di questo libro significava una giornata di lavoro. Non potevano esserci distrazioni, pena il tragico fallimento dell’intera missione”.
Un fallimento che Petrone aveva toccato in prima persona durante il lancio di Apollo 1, quando nel 1967 vide bruciare sul proprio schermo a circuito chiuso gli astronauti Grisson, White e Chaffee, che pagarono il prezzo di una incredibile leggerezza tecnica. Da allora “Tigre” non permise più alcuna presunzione da parte di ogni singola pedina del programma.

Il 20 luglio del 1969 tutto andò bene: Armstrong toccò la superficie del satellite. Il successo portò al colonnello di Sasso di Castalda la promozione a direttore del programma Apollo (prese il posto del leggendario Samuel Philips). Nel 1972, fu nominato codirettore NASA del programam congiunto Apollo-Soyuz Test Project. Un anno dopo si trasferì in Alabama per assumere l’incarico di direttore del Marshall Space Flight Center. Nel 1974 tornò di nuovo a Washington, per assumere l’incarico di amministratore associato della NASA. L’anno seguente terminò la sua carriera tecnica per divenire presidente e amministratore del “National Center for Resource Recovery”. Petrone fu in seguito presidente della divisione vettori spaziali della Rockwell Inc., partecipando da osservatore ai lanci degli Shuttle Columbia e Challenger.

A soli cinquanta anni Petrone lasciò la sua amatissima NASA per seguire altri incarichi e rifugiare la vita privata in una villa a Palos Verdes Estates, in California. Sposatosi con Ruth e padre di Theresa, Kathryn, Michael e Nancy, ha difeso tenacemente la privacy, ricordando con orgoglio gli anni pionieristici della conquista dello spazio e con malinconia i viaggi in Italia.

“L’ultimo tratto del mio primo viaggio in Italia – avrebbe ricordato in una intervista  l’ingegnere che è morto nel 2006 – lo feci in un taxi azionato a manovella. Quando arrivai a casa di mia nonna rimasi interdetto dalla sua indifferenza e scoprimmo insieme che la lettera spedita due mesi prima per farmi riconoscere e presentarmi, arrivava con lo stesso taxi che mi aveva trasportato”. Da allora non riuscì mai più a dimenticare di essere figlio dell’Italia.


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