I fan per assistere al concerto dei Pearl Jam sono arrivati da tutt’Italia (Ph. L.Ferrari)

Allo stadio Nereo Rocco di Trieste sono di scena i Pearl Jam. A più di vent’anni dagli esordi, sono ancora on stage.    Cresciuti senza cambiare. Genuini e normali. Nel capoluogo friulano i fan sono arrivati da ovunque per ascoltarli. Molti di loro indossano t-shirt musicali. Non solo magliette della band di Seattle. Si fanno anche notare i colleghi del Nordovest americano, Alice in Chains e Nirvana, quindi un po’ di nostalgia con Ramones e The Who. Tra i presenti, insieme ai tanti veterani dei live italiani dei Pearl Jam, c’è anche chi li vedrà per la prima volta, come Francesca Messina, originaria di Ca’ Savio, Venezia. “Sono molto curiosa e intimorita allo stesso tempo”, ammette, “Un evento così grande mi sa da band-mito, ma nessuno me ne ha parlato in questo modo. Vedremo”.   

Niente gruppi spalla. Alle 20.50 i chitarristi Stone Gossard e Mike McCready, il bassista Jeff Ament, il cantante Eddie Vedder e il batterista Matt Cameron, supportati dal tastierista Kenneth “Boom” Gaspar, salgono sul palco. È un boato.    I rockers fanno subito sul serio aprendo con Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, quindi una sorpresa. Suonata il più delle volte durante i bis, irrompe precoce (3°) la possente Black. Il pubblico risponde ondeggiando sulle strazianti e poetiche note-parole di un amore non corrisposto.   

Dal presente di Sirens ci si sposta ai più lontani riff riottosi di Why go. Nell’epoca dell’omologazione i Pearl Jam ringhiano la propria dichiarazione d’indipendenza: (Trad.) “Lei sembra più forte, ma loro vogliono che sia debole/ Poteva fingere, poteva unirsi al gioco/ Avrebbe potuto essere un altro clone”.     

Tocca poi a Corduroy raccogliere il testimone e scandire a chiare note il concetto: “Prenderò la strada più difficile/…  Schiacciami e io resisterò… Loro possono comprarli, ma non possono mettersi i miei abiti”.  Vibrano le sei corde di Stone. Strabordano quelle di Mike. La band propone pezzi da (quasi) tutta la propria discografia fino ad atterrare sulla celebre Even Flow. McCready sale in cattedra. Chitarra dietro la schiena nell’assolo mentre il piede se ne va su e giù per il wah wah. 

A chiudere la prima parte del concerto altre sei canzoni. Un crescendo sonoro fino all’esplosione conclusiva di Do the Evolution e Rearview mirror, con Ament e Vedder in stato di furore concertistico. I Pearl Jam saranno anche invecchiati all’anagrafe, ma il loro rock è più vivo che mai. A decretarlo gli stessi fan. Se la franchigia di football dei Seattle Seahawks, vincitrice nel 2014 del Super Bowl, ha il 12° uomo in campo quando gioca in casa, i Pearl Jam hanno il sesto membro ovunque vadano.   

Dopo una breve pausa iniziano le due sessioni di bis. Alle prime note di Crown of Thorns gli occhi si fanno lucidi. La canzone è dei Mother Love Bone, band di Seattle dove militavano Gossard e Ament fino alla prematura scomparsa del cantante Andy Wood (1966-1990).  Tra il pubblico c’è chi indossa una t-shirt di questo gruppo. La telecamera se ne accorge e la rimanda sui due maxi schermi. Nel buio della performance, alla luce artificiale dei cellulari, si ergono fiere anche le più romantiche fiammelle degli accendini. Da qualche parte, lassù, Andy osserva compiaciuto. Neanche il tempo di riprendersi ed è il momento di Jeremy, la canzone dedicata a un quattordicenne americano suicidatosi con  un colpo di pistola alla testa a scuola, davanti ai suoi compagni di classe. È sempre una sofferenza ascoltarla. C’è sempre una promessa che irrompe dentro nel riviverla.  Un’altra serie di canzoni prima dell’ultimo break.  Ritrovo Francesca. Ha indosso una maglietta del tour di No code prestatale da un amico. “Una sola, unica e sconcertante parola: semplice. Un palco essenziale. Zero effetti speciali. Semplicemente i Pearl Jam” sottolinea. “Non fanno nulla per apparire. Non temono di mostrare la loro età. Niente luci stroboscopiche, raggi laser, effetti elettronici o costumi supergalattici per arricchire lo show. Suonano e cantano come se al posto di uno stadio gremito fossero davanti a un pubblico da bar di provincia”.   

Attacca l’ultima cascata di “music e lyrics”. Better Man, Once, Alive, l’immortale Rockin’ in a Free World di Neil Young e finale con la placida Yellow Ledbetter.    I fan guardano oltre il palco. Si cercano tra di loro. Sbirciano nelle rispettive emozioni. Sentieri empatici fatti di silenzio, pioggia e inchiostro. Sono tutti lì. Insieme.  “Fin dalla prima nota suonata, ho sentito il mio corpo attraversato da una tempesta di brividi” racconta a caldo il giovane Alberto Netti, cantante-chitarrista della rock band Volvodrivers: “Tre ore di concerto intensissime di energia, passione, intelligenza, sincerità, sorrisi, lacrime e vero amore. Vorrei andare ogni giorno a un concerto dei Pearl Jam”. 


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