Alla luna è una delle liriche dei Canti di Giacomo Leopardi, considerato il maggior poeta italiano dell’Ottocento ( Pexels da Pixabay)

Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai? Si domandava il sommo poeta Giacomo Leopardi. La luna, nella sua algida indifferenza, ci regala, pur nella nostra inconsapevolezza, un legame reale ed insostituibile con i secoli che ci hanno preceduto, è una ricchissima eredità che tutti noi abbiamo ricevuto in dono.  La mitologia lunare, come il calendario lunare, sembra precedere quelli solari e la luna pare essere l’elemento che, in maggior misura e da più antica data, determina la formazione dei miti. Questo astro, il più osservabile, è divenuto con le sue fasi, con il suo moto, con l’influenza esercitata sulle maree, sulla vegetazione, sulla psiche umana, con le sue eclissi, estremamente significativo in ogni esperienza arcaica ed  antica. Il suo carattere fondamentale è quello dell’eternità, perché riappare sempre, dopo essere momentaneamente scomparsa e simboleggia una vittoria sulla morte.   

La luna per gli Indoeuropei, per i Greci e i Romani è quasi sempre divinità femminile, sorella del Sole. Tra i popoli germanici era una cacciatrice che di notte a cavallo attraversava la foresta ed abitava di giorno luoghi abbandonati con le vesti di una splendida fanciulla. I documenti medioevali germanici le danno il nome di ‘Holda’ oppure ‘ Holle’, la benevola. Sappiamo che ancora oggi in Africa la tribù dei Tutsi venera la luna. In Latino il suo volto luminoso  è rappresentato dal termine ‘luna’ che deriva dalla radice indoeuropea *leuk-/louk da cui derivano i sostantivi latini ‘lux’, la luce, ‘lucus’ il bosco sacro e poi in Italiano, ‘Liceo’ cioè proprio del dio Apollo, lucerna. La radice indoeuropea  *men(e)s- *me(n)s esprime in molte lingue sia il mese sia la luna; da qui  il Gotico ‘ Menoths’ (Inglese ‘moon’, ‘month’, Tedesco ‘mond’, ‘monat’).  

Il carisma lunare ha ammaliato la mente umana fino a tutto il Seicento quando le denunce della magia e della stregoneria erano una moda e la luna era ritenuta sinonimo di male, probabilmente per il mistero e l’oscurità che l’hanno sempre avvolta. Il suo fascino ha ripreso a sedurre le menti nell’Ottocento, probabilmente per il successo del notturno, proprio del Romanticismo, presente nel motivo letterario, artistico (“Due uomini davanti alla luna” del pittore Caspar David Friedrich) e musicale (“Sonata al chiaro di luna” di Beethoven).  Immergendo con la sua luce la realtà in una dimensione fantastica, la luna è in grado di fare emergere, specie negli animi più sensibili, l’interiorità più profonda, più nascosta, le emozioni più sopite, avvicinando alla dimensione del mistero. E così è stato per Giacomo Leopardi nella lirica Alla Luna:  

Il testo è formato da 16 endecasillabi sciolti (i versi 13-14 non erano presenti nelle edizioni del 1825 e del 1831, ma comparvero nell’edizione postuma del 1845, curata dall’inseparabile amico napoletano  Antonio Ranieri. Molto probabilmente si tratta di un’aggiunta operata dal poeta negli ultimi anni di vita). La straordinarietà, l’unicità dell’opera, è data dall’unione leggiadra ed impercettibile della dimensione oggettiva del paesaggio e la dimensione soggettiva del poeta: la luna perde la sua atavica freddezza ed impassibilità per velarsi di lacrime, come se volesse andare incontro al dolore del poeta, per alleviarlo.  In questa bellissima lirica si sente vibrare la solitudine di un giovane che, pur avendo a disposizione ricchezze e titolo nobiliare, pur vivendo in un magnifico  palazzo, tuttavia soffriva terribilmente perchè solo, abbandonato, perchè “travagliosa era la mia vita”. Chi lo circondava era connotato da falsità, mediocrità, inutile prudenza, mentre il suo animo gridava per essere se stesso, al di là delle finte convenzioni, dei protocolli.  

La sua salute, già precaria per natura, sarebbe andata peggiorando perché non sorretta da uno stato d’animo sereno. Lui stesso, nei momenti di peggiore abbandono, si concedeva cibi dolci in quantità, pur essendogli stato vietato dal medico, quasi con un desiderio autolesionista. A quali danni può condurre la mancanza d’amore…  L’uomo, più è sensibile, più è intelligente, più rimane solo, perchè non è capito, perché legge nella realtà quello che i mediocri non vedono. Questa è la condanna degli animi nobili…Ed è la condanna peggiore, perchè per natura l’essere umano anela alla vicinanza e alla condivisione. Per questo il poeta arriverà ad invidiare gli animali che ogni giorno riprendono la loro esistenza da capo, ignari del futuro, inconsapevoli del passato e per questo…più felici dell’ uomo!   Leopardi aveva un disperato bisogno di comunicare, il quale, nonostante tutto, riemerge sempre nell’essere umano ed ecco che la Natura gli si fa incontro. Ecco la luna, definita al I verso ‘graziosa’, ovvero comprensiva, disponibile, come una madre che si addolora nel vedere scendere le lacrime dagli occhi della propria creatura.

Il poeta rivive la medesima esperienza dell’anno precedente e questo sta ad indicare che la condizione umana è immutabile: chi soffre, perchè è una persona speciale, soffrirà sempre, non bisogna illudersi, potrà solo avere degli attimi di serenità, ma niente più. ‘Questo’ del II verso e ‘quella’ del IV verso, indicano l’abisso che separa l’uomo dalla luna: dovrebbe esserci incomunicabilità invece è l’essere più lontano quello più in grado di capirlo.  Anche noi a volte troviamo conforto e condivisione, magari più in chi non aveva meritato, fino a quel momento, la nostra considerazione, piuttosto che in coloro che avevamo idealizzato. L’apparenza, la forma più che la sostanza, ecco cosa acceca: basta poco per illudere, per ingannare. “Nel tempo giovanil…quando ancor lungo la speme”: con queste parole il Leopardi guarda all’età giovanile con occhio disincantato. E’, questa, una bella fase dell’esistenza umana, perchè in essa si coltivano sogni, desideri, prospettive per il futuro, ma è anche l’età in cui veniamo ingannati, perchè tutto avviene come se un velo ci coprisse gli occhi e non vedessimo nulla.


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