Ma chi parla di rinascita? Purtroppo per il cinema italiano c’è solo un accanimento terapeutico

 
Il cinema italiano che creava capolavori e sfornava artisti di genio è scomparso, non è certo una notizia dell’ultimo minuto, ma, dopo tutte le grida scomposte degli esperti del settore che riempiono le pagine dei giornali specializzati, dobbiamo prendere atto che il cinema italiano non è ancora morto. Purtroppo.
 
L’industria cinematografica italiana è in stato vegetativo dagli anni Ottanta. Se il cinema no-strano fosse morto, dopo un ob-bligato periodo di lutto, adesso forse assisteremmo alla sua rinascita: così non è.
 
In Italia, nell’ambiente si sente parlare continuamente della grande “rinascita del cinema italiano” che in realtà nessuno ha mai visto, ma produttori e giornalisti, starlette e piccoli registi cercano di convincere, e auto-convincersi, che si stia vivendo un nuovo periodo d’oro della settima arte. 
 
La produzione di film, bisogna ammetterlo per onestà intellettuale, è in crescita: nel 2011 sono stati prodotti con intero capitale italiano 132 pellicole, nel 2010 erano 115, nel 2009 erano 97, negli anni Novanta rimanevano attorno alla fatidica cifra di cento film annui.
 
Questi numeri però, presi da soli, non fotografano perfettamente la situazione, ma si prestano come strumento per chi deve necessariamente pubblicizzare dati che propongano la mitica “rinascita”. Se si considera la drastica diminuzione dei costi di produzione nella realizzazione di prodotti video generata dalla tecnologia digitale, diventa evidente che una minima crescita annuale sia fisiologica. 
 
Il costo medio di una produzione è stata di 1,96 milioni di Euro nel 2011: poco più di 1 milione e 250 mila dollari. 39 dei 132 film dell’anno scorso hanno avuto produzioni al di sotto dei 200 mila Euro, 87 hanno richiesto agevolazioni fiscali allo Stato, e oltre il 30% dei film è realizzato con contributo pubblico. 
 
Già, in Italia anche il cinema riceve contributi pubblici. Nel 2011 ad esempio lo hanno ricevuto: 21 film di interesse culturale (definizione che poi andrebbe rivista alla luce dei risultati), 40 opere prime e seconde, 33 cortometraggi e 14 sceneggiature originali in fase di sviluppo. Interessante anche il dato che emerge dai film di nazionalità italiana che hanno richiesto agevolazioni di tipo tax shelter e/o tax credit, si aggirano intorno al centinanio in entrambi i casi. 
 
I risultati economici? Il totale incasso si attesta a poco più di 180 milioni di Euro (qui si considerano anche le co-produzioni), per una media totale di circa 1 milione e 613 mila Euro. Un totale presenze di 39.441 spettatori, con una media che si attesta a 263 unità. Investireste in questa industria? Un’industria che realizza progetti da meno di un milione e mezzo di dollari, quindi piccole produzioni, e in media spende di più di quel che guadagna? 
 
Tutti questi numeri, sono stati riportati non per mero amore delle statistiche, ma per avere un contesto concreto su cui basare l’analisi, ed evitare al lettore di trovarsi in mezzo alle ideologie, ancora così presenti nel Belpaese. Se il glorioso passato del cinema italiano è un fantasma scomodo, lo stato delle cose ai giorni nostri è imbarazzante. 
 
Un tempo Giovanni Pastrone era il punto di riferimento del mondo (a lui ad esempio si attribuisce l’invenzione del “carrello”), e D.W. Griffith non ebbe problemi a confessare che prima di girare “Intolerance” vide e rivide più volte il capolavoro di Pastrone “Cabiria”.
 

Vittorio De Sica

Anche durante la tragica svolta fascista il cinema italiano non smise di meravigliare: Blasetti, De Sica, Gallone, De Robertis, Matarazzo, Genina e molti altri registi, resero il cinema di Roma una vera prelibatezza. Una celebre frase di Mussolini riportava: “Il cinema è l’arma più potente”. Il Duce aveva già compreso le potenzialità del media nello specifico e dei media in genere. Ma fu dopo la II Guerra Mondiale che il cinema italiano stupì ancora il mondo: nacque il neorealismo. 
 
Rossellini e De Sica sono i due nomi che maggiormente si accostano a questo periodo, ma non sono i soli, basti pensare al “neorealismo interiore” di Michelangelo Antonioni: è in questo mo-mento che doniamo al cinema mondiale talenti come Visconti, Pasolini, Fellini… Artisti entrati nell’olimpo della storia della settima arte insieme a Murnau, Ozu, Dreyer, Bergman, Ėjzenštejn, Riefenstahl, Ford, Welles, Lang, Kurosawa, Von Stroheim e pochi altri.
 
Questo era il cinema italiano. Ma queste erano le vette, le personalità più fulgide, i talenti più cristallini. Lavoravano a Cinecittà anche registi “minori” (non come valore, ma per fama), come Leone, Steno, Bolognini, Castellani, Monicelli, Salce, Soldati, Rosi, Germi, Petri e tanti altri. Ed ancora c’erano registi che lavoravano con budget ancora più bassi riuscendo egualmente a creare veri gioielli: Mario Bava, Di Leo, Corbucci, Fulci, Cicero, Argento e tanti, troppi, altri.
 
Era un’industria florida, con tanti spettatori, grossi incassi, alcuni film molto costosi, tantissime produzioni a budget basso che però facevano grossi incassi e permettevano ai produttori di investire nelle produzioni più impegnate. 
 
Nessun tributo nostalgico al passato, ma qualche riflessione, attraverso i dati, nasce spontanea. Nell’anno 1970, preso solo ad esempio, i film prodotti sono stati 239 e le produzioni erano ben più impegnative: grandi attori, pochi mezzi tecnologici, tanta pellicola ed enormi costi di produzione. Ovviamente i risultati economici erano ben maggiori: il cinema era all’avanguardia ed era uno degli intrattenimenti prediletti, nel mondo.
 
Il drastico calo delle presenze nelle sale è dovuto principalmente all’avvento della televisione. Ma anche negli Stati Uniti esisteva ed esiste la televisione, ma l’industria cinematografica, seppure con qualche adeguamento, resiste bene; in Francia il cinema è ancora un investimento molto conveniente e i prodotti si distinguono per l’egregia qualità. 
 
Non si vuole affrontare la questione della qualità dei prodotti, poiché i film in produzione in questi anni nel nostro Paese sono altamente scadenti da molti punti di vista: intellettuale, estetico, drammaturgico, tecnico.
 
 Si lodano molto i giovani registi ma se poi si ha la pazienza di guardarne i film ci si accorge subito che non è un cinema fresco, non ci sono idee, c’è solo un po’ di manierismo, di feticismo che consente alla pellicola di emergere in un panorama italiano molto triste: in Italia abbondano le commediole con tante belle modelle seminude e sei o sette comici, rappresentativi di molte regioni italiane, che si sfidano a colpi di comicità grezza e becera. È facile risplendere in un panorama così povero. 
 
 Michelangelo Antonioni 

 Michelangelo Antonioni 

 
Le maestranze, le gloriose maestranze che hanno reso possibile ai registi, che affollavano Cinecittà nei tempi d’oro, di realizzare i loro sogni, ai grandi attori di incarnare al meglio i personaggi, e agli spettatori di immedesimarsi in quella serie di immagini proiettate su un muro, sono sparite. Non vi è stato ricambio generazionale. Sceneggiatori, soggettisti, scenografi, attrezzisti, macchinisti, direttori della fotografia, musicisti, operatori, ma anche registi e produttori. Tutto sparito. Quelli più bravi sono quelli che c’erano già ai tempi d’oro. 
 
In fondo non si scrive nulla di nuovo, il compianto Carlo Rambaldi, passato a miglior vita recentemente, aveva lasciato l’Italia, e anche Dante Ferretti, Vittorio Storaro e tanti altri. Le eccellenze vanno a cercare pane per i loro denti nel mondo, è naturale. Entrando a Cinecittà, la prima cosa che si nota non è lo Studio 5 di Fellini, dove girò tutti i suoi film (non girò nemmeno un’inquadratura fuori da Cinecittà); la prima cosa che si nota è che l’erba avrebbe bisogno di essere tosata, che gli edifici andrebbero riverniciati, che la decadenza è fisica.
 
Si grida al miracolo ogni volta che un film si erge di poco sopra la media, ci si straccia le vesti appena un regista dimostra di conoscere il linguaggio filmico, le sue regole e cliché, ovvero: ci si meraviglia che qualcuno sappia fare il suo lavoro. 
Che si voglia analizzare la questione dal punto di vista industriale o artistico, il risultato non cambia: il cinema italiano è oscenamente vivo. Questo è accanimento terapeutico. 
 
Prendiamo ad esempio sempre il 1970 per una rapida analisi della qualità dei prodotti; ecco alcuni titoli in uscita in quell’anno: “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri, “Uomini contro” di Francesco Rosi, “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica, “Metello” di Mauro Bolognini, “Il conformista” di Bernardo Bertolucci, “L’Uccello dalle piume di cristallo” di Dario Argento, “Brancaleone alle crociate” di Mario Monicelli, “Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca” di Ettore Scola, “Strategia del ragno” di Bernardo Bertolucci, “I clowns” di Federico Fellini e tantissimi altri. 
 
Nello stesso anno usciva anche un film di Antonioni realizzato in Usa con una grossa co-produzione di Mgm e Trianon sotto la guida del produttore Carlo Ponti: “Zabriskie Point”. Dà la misura del calo di qualità dei prodotti. Se non fosse sufficiente, s’invita il lettore a guardarsi le pellicole prodotte nel 2011. In breve sarà chiaro che chi parla di rinascita del cinema italiano, o non sa di cosa parla o è in malafede.
 

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