I vecchi romani, quelli che abitano a piazza Cavour, via Labicana oppure nelle stradine che si inerpicano verso il Celio, non si sono per nulla sorpresi una volta appreso che, sopra il Colosseo, insomma a due passi da casa loro, sono soliti crescere i capperi. Loro lo sapevano già. E così quando le squadre di operai che stanno controllando e potando le mura del monumento – nell’ambito di interventi finalizzati a salvaguardare la stabilità dell’Anfiteatro – hanno raccontato di aver dovuto usare forbici e cesoie estirpando centinaia di ciuffi di capperi (le cui radici, assieme al becchettio degli uccelli, minano la solidità del Colosseo) la notizia si è diffusa, suscitando tanta curiosità.
 
Insomma, uno dei vanti culinari dell’isola di Pantelleria, il cappero, appunto, pianta selvaggia per eccellenza, abituata a crescere al caldo e sotto il sole cocente del Mediterraneo, si era lentamente appropriata delle mura del Colosseo? Proprio così. In realtà, i capperi, a Roma, sono compagni dei muri di monumenti e reliquie, degli anfratti delle rocce e delle rupi. Aggiungete il caldo torrido che, dall’inizio di giugno a questo scorcio di agosto, sta tramortendo la città ed i suoi abitanti. L’afa, le temperature asfissianti, il sole allo zenit sono gli ingredienti più congeniali per fare in modo che i capperi crescano in modo spontaneo, abbondante, rigoglioso. Tra i vecchi romani – o comunque tra coloro che conoscono il segreto – è curiosa abitudine armarsi di buste di plastica e fare un giro attorno alle Mura Aureliane, a Caracalla o tra le rovine di San Lorenzo. Prendono i capperi, li annusano e se li portano a casa. Immaginando, per un momento, di trovarsi a Pantelleria, a Creta, a Cipro, su qualche costa greca o turca, dove la pianta dei capperi, complice il caldo e il sole opprimente, è solita crescere, dall’avvento della primavera fino ai primi colpi dell’autunno.
 
C’è persino chi, a Roma, li coglie, li prepara e li usa per allestire un primo piatto davvero prelibato: le “penne alla puttanesca”. In altre parti della città – non strette dalla morsa dei gas di scarico – l’odore dei capperi, avvinghiati ai muri di vecchi edifici, riesce persino a fare breccia, inebriando l’olfatto. Al Colosseo è oggettivamente diverso: un po’ perché i capperi crescono a dismisura lungo l’intero perimetro dell’Anfiteatro, un po’ perché lo smog è terribile e non consente certo di appropriarsi del loro profumo. Sembra che specialmente all’ultimo piano del Colosseo i capperi crescano magnificamente, diventando spesso cibo prezioso per i numerosi gatti che vi vivono. Ragionando come farebbero i malati di “business”, quelli che cercano di fare soldi, sempre e comunque, sarebbe certamente un grandissimo affare inscatolarli, magari con l’etichetta “capperi del Colosseo”, avviandoli in esportazione in tutto il mondo, magari con l’effige dell’Anfiteatro Flavio a far da sfondo. Per adesso, però, fortunatamente a nessuno è venuto in mente.

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