Il cinema italiano parla all’elite, questo afferma Francesco Bonami su La Stampa, riferendosi ai registi, sceneggiatori e produttori italiani. Sono loro a ritenersi tali o pensano che il pubblico lo sia? 
 
Il concetto di autorialità legata ad un’arte che nasce dal business di un’industria dagli alti costi e, talvolta, dagli elevati profitti (Checco Zalone ne sa qualcosa), non può puntare solo ai letterati, ma deve parlare alle masse, con linguaggi differenti ma comprensibili. Cosa che non riusciamo a mettere nero su bianco. Ecco spiegati i pochi soldi raggranellati dalle casse dei nostri cinema alla voce film italiano.
 
Hollywood lo sa e, nonostante ogni tanto inciampi mentre si riflette su se stessa, si dedica anima e corpo all’intrattenimento da grande schermo, anche puntando sul fascino “improbabile” delle sue star. 
 
Uno dei recenti esempi di spessore è rappresentato da Ben Affleck, attore capace di reinventarsi regista di gran classe, firmando alcuni buoni lavori, ultimo tra i quali l’inedito Argo. Basato su fatti realmente accaduti, il film racconta un episodio di vita reale, la storia di sei diplomatici statunitensi costretti a fuggire da Teheran durante la crisi iraniana del 1979. In che modo accadde ce lo racconta con una rilettura intensa e toccante.

Marco Bellocchio

 
Tornando sulle nostre sponde, racconti belli ed esemplari ce ne sono: Bella Addormentata di Bellocchio, Cesare deve morire dei fratelli Taviani o Reality di Garrone ma si fermano al palo, nella sfida più bella. Quella di parlare al pubblico più ampio possibile, proprio perché estremamente difficili da poter “arrivare” al più ostinato degli appassionati. Il messaggio è chiaro, la comunione tra talento ed effettivo successo si calcola in moneta corrente e, al giorno d’oggi, vince chi incassa di più. 
 
Una legge dura da digerire, ma che può essere un utile monito per seguire nuovi percorsi narrativi ed aggiustare il tiro. La classe da noi c’è, non rendiamola acqua invano. 
 

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