Aurelio Fort, friulano di nascita, vive tra le montagne bellunesi. Fin da ragazzo ha intrapreso un percorso di sperimentazione artistica che ha riguardato fotografia, pittura, scenografia, musica e grafica. Da circa trent’anni si è dedicato esclusivamente all’arte visiva. La sua ricerca espressiva coniuga materia, pensiero e tempo con chiare adesioni all’arte povera e all’arte concettuale, ma si estende liberamente in altri ambiti formali e nello spirito di diverse esperienze stilistiche. 
 
Dal 1980 a oggi ha realizzato un album di canzoni e più di ottanta tra mostre, installazioni, azioni, progetti e performance in Italia, Europa e Usa. 
Negli Stati Uniti i suoi lavori sono stati presentati all’Istituto Italiano di Cultura e Angel Orensanz Foundation di New York (1998) e alla Contemporary Art Gallery Bianca Pilat di Chicago (1997). 
 
“Esistere per Ri/Esistere” è un progetto artistico internazionale, culminato il 25 Aprile 2013, festa nazionale della Liberazione, con un’installazione urbana nel centro di Belluno.
Inizialmente, Alfonso Lentini ed io, avevamo pensato a un’azione clandestina: spargere e disseminare a sorpresa la città di sassi e parole (le povere armi dei poveri), un “blitz” in un certo senso. Poi via via si è fatta strada l’idea di estendere questo gesto fino a includere una moltitudine di persone. Così, grazie al blog che abbiamo aperto su Facebook e a un efficace passaparola, sono arrivate adesioni di artisti, scrittori, poeti, bambini, donne e uomini che si sono riconosciuti nel progetto e volevano “farne parte”, un po’ da tutta Italia e da oltre 40 nazioni nel mondo. 
 
Ogni sasso aveva un’identità, un nome e un cognome e un’impronta digitale che suggellava la frase “Resistere per Ri/Esistere”. Rinunciando al “colpo d’effetto” è però diventata un’installazione civile.
 
L’arte povera conduce all’esplorazione di nuovi percorsi artistici? 
Ogni corrente artistica nasce dalla volontà di reagire contro un’estetica dominante e apparentemente imperturbabile. L’arte povera ha contribuito non poco a sconvolgere la sensibilità della cultura borghese che era appena riuscita ad accettare i processi elaborati dalle avanguardie dei primi decenni del 900. E’ un’arte dell’essenza delle cose. Più che rappresentare la materia, la presenta. L’arte povera produce “senso” in un mare d’assurdo e lo fa attraverso la metamorfosi delle cose e dei materiali più insignificanti per poi riconsegnarli in sublimazioni splendenti.
 
Devo ricordare che nel 1978 ho abitato un periodo a Umbertide, in Umbria, e che lì vicino, a Città di Castello, ho realizzato la mia prima “vera” mostra. Da quelle parti aleggiava prepotentemente il nome di Alberto Burri e quello fu il mio incontro formativo con l’arte povera, anche se poi ci furono altri incontri e altri cammini. Per quanto mi riguarda, ho sempre accettato tutte le influenze e tutte le infatuazioni.
 
 “C’era una volta il mare” fa parte del “Trittico di pittura dolomitica”, una forma imponente che non ha bisogno di spiritualità?
Abito qui, (non vivo qui… qui è solo lo “spazio” in cui si svolge al momento la mia esistenza), in queste valli silenziose e gelide dove il corpo va in rovina e lo spirito “impietrisce” ai piedi di queste montagne spettacolari, celebri e ottuse che io detesto. 
Mi è stato chiesto di realizzare un’opera pittorica di grande formato che sarebbe dovuta restare esposta all’aria aperta un anno intero, abbandonata alle intemperie e maltrattata da grandi escursioni termiche. 
 
Questa richiesta ha provocato in me una certa eccitazione e ho subito pensato a un’opera come se fosse un deposito di “tempi”, un’opera costruita attraverso una stratificazione di materiali instabili che si sarebbero deteriorati e meravigliosamente compromessi entrando in una specie di simbiosi geologica con il paesaggio. 
Un paesaggio non ha niente di romantico, un paesaggio colpisce per il suo aspetto preistorico, per quello che suscita nel nostro profondo… da qui il riferimento al mare, per dire di un tempo lontanissimo, inumano, al di fuori da ogni memoria, un tempo per noi inimmaginabile che annienta e che annichilisce. Più spirituale di così…
 
Se è vero che ogni artista viene al mondo per dire una cosa sola, ha individuato quella piccola cosa su cui costruire il suo mondo?
Un artista è quasi sempre uno speleologo. Deve addentrarsi, inoltrarsi in sé e nell’oscurità delle proprie visioni. Questo a volte non è comodo. Sono convinto che ogni vera ricerca artistica ruoti attorno ad un asse centrale, profondo. Fare arte non è solo un atto fisico ma è soprattutto un atto psichico.
 
Il sesso e la morte sono gli unici due accadimenti indiscutibili della vita di chiunque e dei quali sappiamo poco o nulla. Ecco, credo che gran parte del mio agire artistico sia “generato” da questo nucleo ossessivo: il sesso, la morte e il loro intimo rapporto all’interno della forma del tempo. 
In verità invecchio senza imparare nulla (non so capitalizzare), non ricorro mai al cosiddetto “mestiere” e alle sue astuzie: percepisco ogni nuova opera come un esordio, come un azzardo, con lo stesso nervosismo e la medesima ansia. C’è in me un’inclinazione fondamentale all’eccitazione della scoperta, cioè al fascino di intravedere qualcosa di inedito, una nuova forma, un nuovo sviluppo. 
 
Quella “piccola cosa” che in fondo sostiene la mia ricerca è “l’inquietudine”, la condizione del vivere, nasce dall’esperienza di essere nato (è senza scampo). E’ il niente, ma è il mio niente, un niente non trascurabile.
 
E’ importante una società in cui abbia senso l’arte? Cosa la distingue da una società in cui invece l’arte e l’artista sono emarginati? 
Nell’arte conta la verità, bisogna trovare l’essenza della vita umana…il sogno. C’è una grande forza che nasce dai sogni. E’ la passione che muove il mondo. Una società che marginalizza l’arte è votata al cinismo, all’ipocrisia, all’indifferenza e non può che dare vita a un mondo vuoto e informe. E’ quello che abbiamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
 

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