Il regista premio Oscar Paolo Sorrentino (Ph. Federico Roiter)
Ci sono delle somiglianze tra Paolo Sorrentino e Jep Gambardella? Entrambi siete napoletani, vivete a Roma, avete scritto un solo romanzo…
Sì,  mi ci ritrovo molto, ho lo stesso sguardo disincantato e un po’ cinico. Ho scritto un solo romanzo però ho fatto sei film nel frattempo. Sono abbastanza attivo, per fortuna, a dispetto del personaggio che non fa niente dal mattino alla sera. Almeno in questo siamo diversi.
Come mai nella Grande Bellezza ha scelto di raccontare un ambiente mondano e superficiale?
Volevo raccontare le difficoltà di un uomo, e questo si può fare in maniera molto agevole se si immerge il personaggio in un contesto che per definizione è bello, scintillante e sognato da molti. Sono proprio questi mondi che sottendono un grande senso di vuoto e di solitudine. Più lo scintillio si fa continuo e feroce, più il nostro protagonista perde l’attaccamento al terreno. Per ritrovare la terra sotto i piedi deve recuperare una semplicità che aveva smarrito.
Ha un’immagine, un ricordo che le fa tornare la voglia di fare le cose, come per Jep Gambardella quello di un amore adolescenziale?
No, non ho questo meccanismo. Quella è un’immagine cinematografica inventata, sarebbe anche patologico se fossi rimasto inchiodato al primo amore. In un film è possibile perché  la forzatura della realtà lo consente. La forza per fare le cose la trovo altrove, dove non lo so…
Perché ha scelto di ambientare il film a Roma? Avrebbe potuto girarlo anche a Milano?
La Grande Bellezza può essere ambientato in qualsiasi grande capitale perché presenta tutti i problemi e le caratteristiche tipiche delle grandi città. Ma forse lo immagino più a New York che a Milano. Roma ha un’aria caciarona e sa tenere meglio insieme mondi diversi, il sacro e il profano. Milano è più raffinata, Roma ha una volgarità che si prestava a far prendere coscienza al protagonista, un uomo elegante nel vestire e nel pensare, del fatto che si trova di fronte ad una voragine di decadenza e volgarità. Questo lo diverte, un po’ ne fa parte e un po’, essendo uno scrittore, lo mette in una condizione di osservatore, con un piede dentro e uno fuori, senza mai essere capace veramente di vivere.
I suoi film ruotano spesso attorno ad un personaggio principale, è una scelta ben precisa?
Mi ci trovo bene, faccio un po’ fatica ad allontanarmi da questo schema. Di solito c’è un protagonista maschile, adulto, fermo  attorno al quale il mondo si muove molto. È stato lo stesso con Il Divo, la storia di Andreotti, un uomo immobile al centro di un universo che gira vorticosamente su se stesso.
Ha mai pensato di mettere in scena una protagonista femminile?
Mi piacerebbe molto. Ogni volta mi areno perché  non è facile per un uomo avere quella confidenza un po’ cameratesca che si ha tra uomini con una donna. Lavorare con un personaggio maschile, che magari ha le mie stesse deficienze, mi rende il personaggio più familiare. Da uomo tendo ad avere un’idolatria delle donne che me le rende distanti. Alcuni pensano che sono un misogino, invece è esattamente l’opposto, è l’eccesso di rispetto e devozione che ho nei confronti della donna che mi inibisce nel raccontarla.
È stato detto che La Grande Bellezza è un film molto felliniano. Secondo lei qual è “la grande bellezza” dei film di Federico Fellini?
Se ne potrebbe parlare per ore. Per me è il più grande di tutti, il regista che più di tutti incarna la parola “cinema”. I suoi film sono grandi ritratti dell’uomo, delle sue nevrosi, dei suoi problemi, del suo squallore, ma anche della sua gioia. Grandi ritratti di uomini e donne fatti col massimo della grazia, della leggerezza e della genialità.

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