Spesso le canzoni sono in grado di tradurre in poche note e parole una mole di emozioni, sentimenti e racconti. Così fa “Italia Patria mia”, brano scritto da Tiziana Grassi con il tenore Giuseppe Gambi, su musica del compositore Luigi Polge e arrangiamenti di Armando De Simone, che racconta secoli di emigrazione e la vita di 27 milioni di italiani partiti oltreconfine. 
L’Italo-Americano ha intervistato Tiziana Grassi, nota studiosa di migrazioni di ieri e di oggi, direttore di un importante “Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo”, per 10 anni autrice di programmi di servizio per gli italiani all’estero a Rai International (oggi Rai Italia). 
 
Una profonda conoscenza del mondo dell’emigrazione riassunta in una canzone. 
Il substrato è tutto in quei 10 straordinari anni di lavoro quotidiano con e per i nostri connazionali nel mondo che si rivolgevano al nostro programma di servizio “Sportello Italia” per manifestare tutte le loro istanze, sia espresse che inespresse. Una grande responsabilità, che implicava, oltre al rigore di un giornalismo di servizio per tenere vivo il ponte comunicativo-informativo tra le ‘due Italie’, una empatica capacità di ascolto, un sintonizzarsi nel profondo, un rapporto di fiducia da parte dei nostri connazionali nel mondo verso noi autori di quel programma. Molto più che un lavoro. Che mi ha reso una persona più attenta ai problemi e ai bisogni dell’Altro. Un’esperienza umana straordinaria, ampliante e commovente. Come non restare colpiti, quando chiamavamo i nostri telespettatori a casa per informarli che con degli esperti stavamo prendendo in carico i loro problemi di pensione, salute, fisco, cittadinanza, nel percepire la loro commozione per il solo fatto che ci sentivano parlare nella loro stessa lingua, la loro incredulità perché ci stavamo pre-occupando di loro? 
E come non restare colpiti dalle loro testimonianze, dai loro diari di vita che inviavano alla nostra redazione, scritti in una lingua incerta, autopubblicati con i propri risparmi nella speranza di lasciare memoria, una traccia del loro vissuto di coraggio, sogni e conquiste, piccole o grandi che fossero? Già i titoli di quei loro volumi erano un messaggio dal fortissimo ed emblematico significato: “Una vita a metà”, “Una vita sospesa”, “Essere nell’altrove”. 
 
Un’esperienza professionale preziosa di cui ha saputo far tesoro condensandola in un lavoro editoriale imponente.
Alla luce di questa straordinaria esperienza professionale, coinvolgendo e coordinando oltre 160 studiosi ed esperti di storia, psicologia, linguistica, onomastica, genealogia, musica, cinema, letteratura, antropologia, sociologia, economia, ecc., ho sentito di darle forma con il “Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo”. Un’opera (dizionarioitalianinelmondo@gmail.com) che raccontasse la nostra emigrazione come un mosaico interdisciplinare attraverso oltre 700 lemmi, 500 fotografie e documenti storici e numerose appendici di approfondimento tematico. Sono le parole della nostra epopea, tra americanizzazione, appartenenza, adattamento, lutto migratorio, broccolino, assimilazione, italianità, devozione, feste popolari, gemellaggi, monumenti all’emigrante, mestieri a tipizzazione regionale, stereotipi e pregiudizi, ricongiungimenti familiari, partenza, traversata, oceano, equatore, naufragi, terza classe, Ellis Island, quarantena, passaporto rosso, sogno americano, identità migratorie, sradicamento-spaesamento, nostalgia, riscatto, rimpatrio-ritorno. 
 
Quanto è stato difficile condensare un’epopea, una pagina fondativa della Storia italiana, in 4 minuti?
L’Inno degli Italiani nel Mondo “Italia Patria mia” (youtube.com/watch?v=ituQQ8B7O5k) è un distillato di questo palpitante e denso universo migratorio, dei miei anni di lavoro a contatto diretto e quotidiano con gli italiani emigrati, del bagaglio conoscitivo espresso in maniera scientifico-divulgativa nel Dizionario Enciclopedico. E’ il condensato, lucido e al contempo partecipe ed emozionale, di una Storia italiana scritta dalle storie di milioni di nostri connazionali. Che si sono fatti strada nel mondo a costo di immensi sacrifici fino a diventare, talvolta, protagonisti all’estero. Eccellenze italiane, ambasciatori straordinari del nostro Paese e della sua identità valoriale.
 
Ha scelto quattro concetti fondamentali nell’Inno: coraggio, speranza, orgoglio, conquiste.
Queste parole credo siano quelle che meglio testimoniano il portato di questa pagina fondativa della nostra Storia, una storia talvolta un po’ trascurata, o liquidata sommariamente come eco del passato, mentre abbiamo 80 milioni di oriundi nel mondo a cui dobbiamo rivolgerci in ogni modo per mantenere vivi e stimolare legami nella dimensione non solo affettiva, ma anche linguistica, culturale, scientifica, accademica, economica. Un discorso ampio, complesso e prospettico, che implica e necessita di maggiore ‘visione’ da parte del nostro Paese e dei suoi decisori pubblici, sia nelle politiche che nelle prassi. 
Discorso che però manca.
Assistiamo a continui tagli che penalizzano i rapporti tra le ‘due Italie’, e penso, tra gli altri, ai tagli alla diffusione della lingua e cultura italiana nel mondo, quelli al sistema diplomatico-consolare, alle programmazioni Rai dedicate ai nostri connazionali, alle Regioni, che avrebbero il nevralgico ruolo di sistematizzare, in Italia, iniziative e progetti per i propri corregionali all’estero. Istanze che venivano indirizzate al programma di Rai International “Sportello Italia”, oggi “Community”, come quelli di stage di formazione culturale-professionale per gli oriundi italiani che desideravano conoscere i luoghi di origine dei propri avi, o come il sostegno alle problematiche socio-sanitarie e ai ‘viaggi del ritorno’ per gli anziani emigrati che, a causa delle precarie condizioni economiche, non avevano mai potuto rivedere i paesi di origine. Un discorso che magari interpella meno gli italiani negli Stati Uniti e in Canada, ma che va seriamente considerato per molte altre aree geografiche.  
 
L’Inno cerca di convogliare l’attenzione generale su questi temi.
Coraggio, orgoglio, sogni e conquiste sono parole incise sulla pelle dei nostri connazionali, e forse anche dei loro figli e nipoti, perché spesso le storie migratorie, e le ferite collegate – quando non sono oggetto di una sorta di rimozione storica dell’inconscio collettivo – si riflettono anche attraverso le successive generazioni, nella storia di famiglia. E il desiderio crescente e diffuso di italianità che oggi si registra nel mondo ne è forse un’eco, un riverbero in risonanza. Parole così significanti, testimoni di un’epopea, che ho anche ritrovato incise anche sul basamento di un Monumento all’Emigrante, ad Adelaide in Australia, posto nella Settlement Square, presso il Migration Museum in Tintore Avenue. Un luogo-simbolo della nostra diaspora, dove un tempo gli europei che arrivavano si radunavano per cercare un lavoro, un monumento bronzeo che ha una copia gemella in Italia, ad Asiago. 
E sono parole che sia io che Giuseppe Gambi abbiamo ritenuto dovessero essere assolutamente presenti, e incise, in questo Inno affinché gli italiani all’estero potessero ri-trovarsi in pagine di un vissuto doloroso ma anche di grande forza morale. Ecco perché questo Inno è dedicato a tutti loro.
 
“Italia Patria mia” celebra la storia di 27 milioni di italiani partiti tra Otto e Novecento e che oggi si riverberano in 80 milioni di oriundi sparsi nel mondo. Più che un Inno, è una grande responsabilità raccontarne le storie e le emozioni. 
Certo, è una grande responsabilità etica trattare le tematiche migratorie. Perché sono necessari approcci rigorosi e complessi, che esprimano grande sensibilità, in quanto si affrontano temi centrati sull’uomo, sulla persona, su un vissuto di sofferenze ed emozioni legate al distacco da tre madri: la propria madre naturale, la madre-terra e la madre-lingua. 
E’ sempre una responsabilità affrontare le questioni migratorie, sia che si tratti di curare un programma di servizio per gli italiani all’estero, che un’opera enciclopedica o il testo di un Inno. Il rischio dello scivolamento nello stereotipo, nella banalizzazione degli universi ontologici è alto, ma aver lavorato per molti anni direttamente, da vicino, su queste problematiche, è un saldo ancoraggio. Come una sorta di ‘certificazione’ di credibilità e di autenticità esperite sul campo, di cui sono molto orgogliosa perché frutto di rigore professionale e di grande passione per queste tematiche che i nostri connazionali mi riconoscono in una corrispondenza ancora oggi quotidiana. 
Il rapporto fiduciario con gli italiani all’estero a cui prima facevo riferimento, l’approfondimento che viene da un lavoro lungo, sistematico e documentato, rappresenta senz’altro la base per poter esprimere, concettualizzare e condividere questa conoscenza, sia che avvenga sul piano scientifico e storiografico, come richiedono l’impostazione e la direzione di un Dizionario Enciclopedico, o che si canalizzi sul piano più estesamente emozionale, concorrendo alla scrittura di un testo che poi diventa linguaggio musicale, una evocativa e sinestetica onda lunga sonora che varca i confini geografici e interiori.

Dal Columbus Day al Dia del inmigrante: in tutti i continenti i discendenti italiani celebrano le radici (Ph. wlrn.org)

Quanto è stato difficile rappresentare i sentimenti, i successi degli emigranti, il dolore del Paese lontano, le difficoltà di inserimento nelle nuove realtà con un Inno che fosse valido per 5 continenti?
Al di là delle mutevoli condizioni e caratteristiche del migrante, ieri poco alfabetizzato e oggi plurilaureato, quando al centro si pone la persona, si entra in una dimensione più vasta, che travalica le categorie spazio-temporali. Sappiamo che la mobilità umana in transito sul pianeta è elemento costitutivo di ogni epoca, della storia dell’umanità e, sul piano strettamente ontologico, che è la prospettiva di analisi e ricerca a me più vicina, ci sono molte costanti che attraversano il vissuto migratorio nei suoi aspetti teorici, sistemi di valori, segni, simboli, psicologia, come l’identità, lo sradicamento, l’altrove, l’adattamento o il disadattamento, l’appartenenza, la costruzione di nuove territorialità, l’asimmetria nell’arrivo in nuovi contesti socio-culturali, le catene migratorie, le discriminazioni, le strategie adattive, l’associazionismo, la questione linguistica verso l’integrazione, lo stress psichico legato al distacco, al partire spesso non per libera scelta, la solitudine, lo spaesamento, il ritorno, la xenofobia, l’intergenerazionalità. In questa solida e ineludibile prospettiva umanistica, mi è stato quindi naturale rappresentare anche in un Inno la storia della nostra emigrazione, facendo riferimento alla vasta e densissima panoramica, anche archetipica, dei sentimenti che la riguardano e le appartengono, ad ogni latitudine.
 
Quanto sarebbe opportuno che quest’Inno venisse, se non imparato a scuola come quello di Mameli, almeno conosciuto dagli italiani? Sarebbe un primo passo verso quell’altra Italia sempre un po’ trascurata?
Sarebbe una delle vie, o dei sentieri… Quello di tenere sempre doverosamente alta la soglia di attenzione verso l’emigrazione italiana e i nostri connazionali nel mondo, è un mio impegno quotidiano, determinato e sistematico, in ogni contesto, dalle mie lezioni all’università agli incontri con i giovani studenti nelle scuole, dalle mie relazioni ai convegni sui temi migratori alle interviste in televisione. E’ un impegno e una sfida. 
Perché non si comprende certa miopia di ‘sguardo’ verso l’Italia oltreconfine, quella costituita dagli emigrati e dai loro milioni di discendenti, non si comprende perché non si valorizzi in maniera forte e sistemica questo nostro patrimonio costituto dai connazionali, che comunque ci osservano e si aspettano segnali di attenzione non estemporanea. 
Penso che questo Inno, così come pure il Dizionario Enciclopedico, dovrebbero essere conosciuti certo all’estero, perché ai nostri connazionali nel mondo è dedicato, ma soprattutto in Italia, dove il lavoro di focalizzazione e di sensibilizzazione su questa nostra straordinaria pagina storica necessita, su questo insisto, di quotidiane azioni sinergiche di consapevolezza, conoscenza e approfondimento. I giovani qui in Italia non conoscono abbastanza la storia dell’emigrazione italiana, perché spesso se ne parla in maniera affrettata, incidentale, aneddotica e quasi folclorica, come retaggio di un’epoca. Ma anche perché gli stessi testi scolastici la affrontano in maniera marginale, dedicandole poco spazio. 
 
In realtà però, “facendone a meno”, ci priviamo di una parte della nostra italianità, della nostra storia.
Questa miopia di ‘sguardo’ si riflette non solo nella mancata valorizzazione dei legami tra le ‘due Italie’, ma anche, in una prospettiva più storico-culturale, in un mancato processo di maturazione nell’interpretazione dei contemporanei fenomeni migratori in corso da e verso l’Italia. Ma l’acquisizione e l’elaborazione di amplianti chiavi di lettura sulla controversa complessificazione del nostro Tempo, di cui la globalizzazione e la mondializzazione sono un segno distintivo, anche se dinamiche di lungo respiro, sono necessarie nel rumore compulsivo di un bulimico ‘qui e ora’. 
Ritengo che stia a ognuno di noi, perciò, nel proprio specifico esperenziale e professionale, impegnarsi in questo sentiero verso nuove e più mature consapevolezze su chi siamo e dove andiamo. Iniziando dalla nostra storia di italiani, che pur tra numerose difficoltà e sacrifici, con coraggio, orgoglio, talento e creatività, abbiamo portato lustro ovunque nel mondo. E penso a persone straordinarie come Amadeo Pietro Giannini, Manuel Belgrano, Martin Scorsese, Enrico Fermi, Francis Ford Coppola, Mario Cuomo, Bill De Blasio, Alfred Zampa, e tanti altri, dal passato al presente.   
 

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